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Promises Written In Water
Se l'arte fosse una religione la presunzione sarebbe un peccato mortale, una bestemmia senza perdono. Vincent Gallo torna a Venezia davanti (Essential Killing di J. Skolimowski, anch'esso in Concorso) e dietro la macchina da presa (anche in Orizzonti con il corto The Agent). Da regista è addirittura nella selezione del Concorso, anche se in effetti non si è limitato “solo” alla firma della regia: nei titoli di testa del lungometraggio breve Promises Written In Water (fortunatamente di appena 75 minuti) Gallo figura anche come sceneggiatore, produttore e montatore.
Un bianco e nero ricercatamente sfumato unisce e divide i momenti sconnessi di una storia dura, morbosa, un po' truce. Una relazione d'amore e morte tra una giovane sciagurata che si concede a tanti per poi lasciarsi morire di cancro e un fotografo che ne registra la parabola discendente fin oltre l'estinzione, fino a diventare composto becchino per la di lei candida salma.
Gallo, si sa, gioca il gioco della provocazione, dell'indipendenza non solo come formula produttiva ma proprio come principio di sregolatezza professionale, d'eccentricità esistenziale, di chiesa d'autarchia ideologica. I risultati sono ormai, sempre più spesso, fastidiosi sfoggi d'arguzia e di perizia dello spettacolo, della costruzione d'immagini, dell'invenzione di situazioni e (presunti) gesti iconoclastici.
L'esasperata (ed esasperante) ricerca formale, un'ispirazione brechtiana più che cialtrona, l'ossessione per la performance del protagonista trasformano il lavoro di un autore in autismo espressivo e, ancor peggio, in parodia involontaria della ricerca cruda e solitaria di un vero indipendente.
Vincent Gallo possiede una visibile intelligenza cinematografica, ma il suo è un cinema in cui non scorre né sangue né vita, pratica inerte di chi pensa di poter fare a meno del mondo: il cinema di un reazionario travestito da innovatore che per il suo lavoro di oggi guarda al modello di un passato inesistente.