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Promised Land
Pur essendo stata fondata da un quacchero inglese, i motivi per cui la Pennsylvania viene ribattezzata "Terra promessa" nel nuovo film di Gus Van Sant non sono di natura messianica.
Ci troviamo nella contea di Armstrong, in una piccola cittadina rurale dal nome fittizio (McKinley), che sembra nascere da una tela di Thomas Benton, con le sue strade dissestate che passano in mezzo a un mare di verde. E nonostante il paesaggio sia punteggiato da vacche e steccati, cavalli e soggetti in camicia di flanella, non ci troviamo in un episodio lungo della Casa nella prateria. Lo sguardo di Van Sant è sicuramente disteso e la fotografia di Linus Sandgren lo aiuta, conferendogli sfumature inedite e classicheggianti. A supporto anche una tracklist smaccatamente folk: Hank Williams, Bruce Springsteen, Sammy Smith. La storia scritta da John Krasinski (da un soggetto di Dave Eggers) però non ha nulla di bucolico. E' esemplare invece dei conflitti da epoca liberista e globalizzata, dove la composizione degli interessi - ecosistema locale vs. sfruttamento transnazionale, tradizione vs.innovazione, comunità vs. individuo - è appena meno complicata della quadratura del cerchio.Il fatto è che l'incantato bio-mondo rurale è assai fragile ed economicamente svantaggioso. E questa intrinseca debolezza è come la mantellina rossa per le corna delle multinazionali. Nel film la Global Crosspower Solutions, società che vende gas naturale, spedisce i mastini Steve (Matt Damon) e Sue (Frances McDormand) a McKinley, al fine di ottenere i diritti di trivellazione sui terreni. La missione parrebbe facile: molti degli agricoltori aspettano gli emissari della compagnia come messia venuti a liberarli dalla povertà e dalla vergogna. Ma, si chiede qualcuno, che cosa succederebbe se il processo di trivellazione dei campi finisse per contaminare le falde acquifere? E' una eventualità remota, ma non impossibile. Senza contare che sulla strada di Steve e Sue si ci mette anche un ecologista dai modi ammalianti (John Krasinski), che sostiene di avere le prove delle malefatte della Global.
La cosa interessante di Promised Land - in gara a Berlino e dal 14 febbraio in sala con la BIM - è la sua terzietà rispetto alla querelle: in fondo Van Sant non vuole dirci da che parte stare, non si professa né liberista né ecologista, ma mostra allo spettatore l'intero perimetro del problema, lasciando a ciascuno libertà e responsabilità di scegliere per quale dei suoi lati propendere.Lo fa con una leggerezza d'approccio sorprendente, concedendo a ogni personaggio una chance e allo spettatore una visione in relax. A forza di sfumare troppo i contrasti però, rischia di annacquare le questioni sul tavolo, equiparando le parti in gioco e inviando al pubblico un messaggio incerto e confuso. Eloquente in tal senso la lunga e contorta arringa finale di Damon.Inoltre in una sceneggiatura già macchinosa, a non convincere (nonostante la bravura degli interpreti) sono i percorsi di maturazione dei personaggi, in particolare quello di Steve: sarebbe stato più proficuo forse mantenerne fino in fondo l'ambiguità, il ruolo di ignava pedina nello scacchiere, tanto più pericolosa quanto più inconsapevole di esserlo (in tutta la prima parte del film vorrebbe convincere gli indecisi ripetendo come una litania: "I'm a good man, I'm a good man"). Ma anche qui si tratta di scelte, in fondo. E dell'impressione che quelle fatte dal film non siano state tutte felici.