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Prince of Persia - Le sabbie del tempo
Sono passati sei anni da quando il geniale tycoon Jerry Bruckheimer - il padre, per capirci, de I pirati dei caraibi - ha acquisito i diritti del videogioco Le Sabbie del tempo. Nel frattempo sono state riscritte sceneggiature, cambiati registi (inizialmente si era pensato a Michael Bay, la scelta è caduta poi su Mike Newell), setacciati attori (scartati David Zandi e Orlando Bloom, si è puntato su Jake Gyllenhaal nel ruolo principale), posticipate uscite (la prima data opzionata: il 19 giugno 2009), riconteggiati costi (il budget sarebbe lievitato superando alla fine i 150 milioni di dollari). Il risultato è che la montagna non ha partorito nemmeno "topolino". Trattandosi di un prodotto Disney, una beffa.
Del resto a eccezione forse del solo Avatar - che ha avuto più di un decennio di gestazione - raramente la dilatazione dei tempi produttivi nel cinema ha garantito perfezione. Piuttosto il contrario. Come se alla lunga venisse a mancare l'iniziale spinta creativa, si perdesse il bandolo della matassa. In Prince of Persia-Le sabbie del tempo (da oggi nelle sale italiane in 600 copie) decisamente aggrovigliata: le linee del racconto sono tante, troppe, si attorcigliano e si strozzano. Il nucleo centrale è costituito dalla battaglia dell'eroe protagonista, Dastan, per salvare regno e mondo dai soliti cospiratori (Ben Kingsley e accoliti). Attorno ad esso, si sviluppano numerose sottotrame: c'è un racconto di ascesa sociale (il protagonista, da monello di strada, diventa sovrano), una storia d'amore (quella con la principessa Tamina, Gemma Arterton, bella ma senza profondità), una maledizione escatologica con travaso di sortilegi e magie, una tragedia shakesperiana che si consuma in famiglia, e viaggi e paradossi nel tempo. L'accumulo narrativo ha finito per danneggiare il film non meno della sua tormentata realizzazione.
Così, più dell'esotismo programmatico (all'Indiana Jones), a segnare l'operazione è una prassi dell'eccesso: di tempi, storie, mitologie, simboli, rimandi. Troppo perché l'eccesso non risulti eccessivo. All'opera manca il necessario respiro, colpi di scena e concitazioni si succedono senza pausa, occupando ogni intervallo disponibile. I personaggi sono figurine - Dastan, dopo la fioritura di eroi tormentati e oscuri dell'ultima decade hollywoodiana, è risibile tanto è perfetto - la scenografie maestose ma digitalmente fredde, i combattimenti innocui balletti.
Il fallimento era nelle premesse: fondere i film fantastorici di questi anni - dalle saghe alla Harry Potter ai già citati Pirati dei caraibi, passando per Narnia, neo-peplum e cinefumetti - in uno solo, presumendo che la somma dei loro tratti caratteristici (l'esotismo, la magia, l'action, il fantasy, la Storia, il superomismo) fosse sufficiente a sfornare il superkolossal. Così non è stato. Nella congestione di temi e figure ci si è dimenticati di equilibrio e coerenza, e se la fortuna delle produzioni di cui sopra è dipesa molto dal risarcimento simbolico che hanno saputo offrire al pubblico inquieto di questi anni- il tema della riscrittura della Storia, nascosto stavolta sotto le "sabbie del tempo", si è rivelato in un modo o nell'altro un'ossessione (dall'11 settembre 2001 in poi, il cinema popolare americano ha giocato sulla continua reiterazione di un'apocalisse risolta) - qui l'impianto iper-derivativo accumula metafore e sottotesti come si fa con le mutande usate nella centrifuga.