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Prigione 77 © Julio Vergne
Un film “chiuso”, anzi recluso (e si perdoni la facile allusione), che fa del proprio spazio, la prigione del titolo, non un limite ma uno strumento allegorico per parlare di ciò che sta fuori.
Sembra un giochino teorico a uso e consumo di letture pigre, eppure Prigione 77 rivela una stratificazione forse imprevista, non solo sul piano dei vari generi che vi si incontrano: il prison movie, va da sé; il western quale suggestione estetica; il period drama per attitudine; il thriller come vocazione; il film sulla fuga come orizzonte. Ma anche su quello storico, perché Alberto Rodríguez torna alle atmosfere dei suoi due film precedenti, uno dei più bei noir dello scorso decennio, La isla mínima, e la spy story da una storia vera L’uomo dai mille volti: l’eredità franchista di una Spagna che sta faticosamente uscendo dalla dittatura, con il popolo costretto a fare i conti con le risacche fasciste di un potere consolidatosi nei pertugi dello Stato.
Per esplorare un mondo a parte che sembra ancora incapsulato nella consuetudine tirannica, Rodríguez sceglie di concentrarsi su Manuel, un giovane contabile finito nel Cárcel Modelo di Barcelona, che rischia una pena ventennale per aver intascato una cifra che corrisponde agli attuali 1200 euro (ha il volto, la forza, il carisma di Miguel Herrán, star di La casa di carta ed Élite). Sa di aver sbagliato, ma sa pure di rischiare una condanna sproporzionata: si allea con il suo compagno di cella (Javier Gutiérrez, sicurezza del cinema spagnolo, qui ergastolano con tendenze dandy) e si aggrega, a un movimento pro amnistia, formato da uomini detenuti per preferenze sessuali, indigenza economica, motivi politici.
In una prigione sovraffollata, dominata da guardie che negano quotidianamente i diritti umani esercitando soprusi e violenze, i protagonisti si battono – anche o soprattutto fisicamente – per la libertà, con l’obiettivo non solo di uscire dal carcere ma anche di portare il diritto penitenziario fuori dalle logiche del regime appena caduto.
Nel gestire una materia in cui devono collimare l’impegno politico e l’intrattenimento muscolare, Rodríguez adotta consapevolmente schemi tradizionali, mettendo al centro un personaggio a tratti archetipico: l’uomo comune e fallibile (ha commesso un errore, deve riscattarsi) costretto a misurarsi con situazioni fuori dai suoi orizzonti che rivelano aspetti e iniziative altrimenti sommersi.
È vero, c’è qualche lungaggine e il montaggio sembra nascondere una potenziale narrazione seriale nel dosaggio dei tanti personaggi, ma, vivaddio, Rodríguez è uno che crede nel cinema come gestione dei grandi spazi (la rivolta che sviluppa anche la verticalità dell’esterno), movimento (lo sguardo di Manuel che osserva la prigione e ne prende possesso), denuncia (i pestaggi “immersivi” e al contempo esplicativi), costruzione della tensione (la dilatazione iniziale che trova il suo senso nel finale).
Popolare e ragionato, ha ottenuto sedici nomination ai Goya vincendone cinque, tutti giusti: produzione, scenografia, costumi, trucco e parrucco, effetti speciali.