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James Franco e il suo amore per le arti. Ha portato sullo schermo le parole di Faulkner (As I Lay Dying e The Sound And The Fury), i grandi affreschi di Steinbeck (In Dubious Battle). E ultimamente ha reso omaggio al cinema, mettendone in scena il fascino e la fatica. Il suo è un gioco di maschere, un intreccio di relazioni. Soprattutto quelle stravaganti, come in The Disaster Artist, cronaca della lavorazione di un film (The Room, da conoscere, nel bene e nel male) talmente “brutto” da diventare un cult ed entrare nella storia. Due attori, con la voglia di sfondare, l’ossessione per il set, decidevano di produrre il loro primo lungometraggio da soli, spendendo cifre esorbitanti. Metacinema, l’opera nell’opera, come anche nell’ultimo Pretenders, presentato al Torino Film Festival.
Franco sembra porsi prima come spettatore, poi come regista. Costruisce un racconto che guarda alla lontana Nouvelle Vague: i suoi protagonisti si chiudono al buio di una sala cinematografica e sognano un giorno di essere famosi. Credono nello spirito rivoluzionario di Godard, nella possibilità di ribaltare ogni ruolo. La donna è donna, ovvero la donna oltre l’attrice, Bande à part, un triangolo con un furto sullo sfondo. Ed è proprio da una tripla infatuazione che nasce Pretenders.
La bella del gruppo fa perdere la testa ai due amici. Ma lei mette la sua personalità prima di ogni altra cosa, non vuole legami forti, insegue la libertà. A teatro si improvvisa Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi, non ha paura di osare in modo spericolato. Finge, recita anche nel quotidiano, nell’intimità. Una venere e due “pretendenti”: impossibile una scelta definitiva.
È chiaro che Franco dà vita a una dinamica in stile Jules e Jim. Li fa correre insieme spensierati sull’orlo di un innamoramento eccentrico, richiama più volte il capolavoro di Truffaut. Ma confrontarsi con i grandi maestri è rischioso. Quella di Truffaut era una sfida a un’epoca, al pensiero comune non solo cinematografico. Qui il ménage à trois non coglie gli stessi toni a loro modo sovversivi. Resta sospeso, potrebbe trattarsi di una citazione appassionata ma futile.
Il regista si perde nelle sue stesse atmosfere oniriche, nelle immagini volutamente fuori fuoco. Guarda con nostalgia a un passato fascinoso, ma ne ripropone più la tecnica che il sentimento. Così le tinte soffuse del bianco e nero si trasformano in luci accecanti, la comunione dei corpi si appiattisce su momenti da spot pubblicitario. Franco non riesce a separarsi dai suoi tre “libertini”, allunga inutilmente l’esile vicenda, gira tre o quattro finali diversi prima di riuscire a urlare “stop”. Aggiungendo un colpo di scena che stordisce invece di stupire. E la Nouvelle Vague, a cui tanto ammicca, resta un ricordo, un pretesto.