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Gabourey Sidibe in una scena di Precious
Butterà il suo enorme cuore tra le stelle, un giorno, Claireece “Precious” Jones. Prima però il calvario. Lei, 16 anni, nera, cresciuta e seppellita viva ad Harlem, è una donna cannone. E, nonostante gli oltre 100 chili di adipe e rotoli, strati di abusi e miserie, immagina di volare via, leggera. Scivolando in sogni catatonici di immaginifiche vite. Momenti in cui il bel film di Lee Daniels cambia passo, s'illumina, trasfigura in musical. E fa respirare: la sua protagonista, il pubblico.
Tratto dall'omonimo libro di Sapphire (l'Academy ha premiato la sceneggiatura non originale di Geoffrey Fletcher), Precious non è una storia edificante, perché gli orrori restano lì, sulla pelle e l'anima di questa ingombrante eroina, indelebili ai nostri occhi. Sfiora il pamphlet sociale (siamo in pieno reaganismo) ma non lo tocca. Piuttosto è un inno alla dignità umana che attraversa casistiche e generi, generazioni e colori. Duro, a tratti indigesto, incollato a un personaggio che al contrario non smette mai di oscillare, estasi e apnea, estasi e apnea. In questo senso il titolo è tautologico: Precious è Precious, il suo corpo il film, offerto sull'altare dello sguardo – malevolo, benevolo, morboso o pietoso - dell'altro. Gabourey Sidibe è sublime nel sacrificio. Ma l'Oscar l'ha preso Mo'Nique, l'abominevole madre.