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Diciottesimo secolo, una landa desolata della Bretagna. Marianne (Noémie Merlant), giovane pittrice, viene incaricata di realizzare il ritratto della coetanea Héloïse (Adèle Haenel), prossima al matrimonio.
Ma per farlo – l’avverte la madre (Valeria Golino) – deve osservare il suo modello senza chiederle di posare. Farle compagnia di giorno, carpirne i lineamenti, i dettagli, per poi dipingere il ritratto di notte.
Per il suo quarto lungometraggio, il primo in costume, Céline Sciamma (anche autrice di soggetto e sceneggiatura) dirige nuovamente Adèle Haenel (con la quale ha anche avuto un legame sentimentale), che ritrova dopo l’esordio di Naissance des pieuvres (2007) e il successivo corto Pauline (2009).
Sfuggente e tenebrosa, la sua Héloïse vive una doppia prigionia, fisica ed emotiva. Tempo addietro, da quelle scogliere, è precipitata la sorella.
Marianne, viceversa, senza svelare le sue reali intenzioni, deve imprimere (non solo su tela) i tratti di questa personalità che, poco a poco, comincerà a decifrare.
Inevitabile, considerato il contesto di chiusura (le pochissime presenze maschili, ad inizio e fine racconto, sono solo figure di corredo) in cui Sciamma fa muovere le sue due protagoniste – partita la madre, con loro rimane una giovane governante – che l’avvicinamento tra Marianne ed Héloïse non sarà semplicemente di natura psicologica.
Dallo stile marcato e dai silenzi che diventano metronomo di un ritmo blando, il film diventa facile manifesto ideologico – seppur declinato al passato – e offre il meglio di sé nella prima parte, quella dove lo sguardo cinema e lo sguardo pittorico sembrano fondersi con discreta armonia.
Non mancano momenti di indiscutibile fascino (vedi la sequenza notturna con l’abito di Héloïse che prende fuoco, immagine che dà il titolo al film), come indubbia è la non scontata sensualità che le due interpreti riescono a restituire, al netto di qualche colpo basso francamente eccessivo (la scena dell'aborto con i bimbi sul letto...).
Ma lo schema è purtroppo abbastanza telefonato (la pittrice donna che non può dipingere modelli maschili, la giovane promessa sposa di un uomo che, supponiamo, di lui non conosce nulla…) e la sensazione è che la regista sia talmente innamorata dei suoi personaggi da non riuscire veramente mai a lasciarli andare via.
Come dimostra quel bellissimo guizzo nel prefinale (con il dettaglio di un dipinto che solamente Marianne poteva cogliere) su cui sarebbe stato giusto, e meglio, chiudere il racconto. Ma che invece anticipa ancora un’altra conclusione. Più facile, più plateale.