"Dalla vita non si impara. La vita si vive, e basta". Claudia (Ángela Molina) è affetta da un male incurabile. Flavio (Alfredo Castro), suo compagno da una vita, non solo non si oppone alla scelta di lei di recarsi in Svizzera per ricorrere al suicidio assistito, ma decide di seguirla in questa scelta, perché impossibilitato a concepire la propria esistenza senza di lei.

Il montatore e regista 41enne spagnolo Carlos Marqués-Marcet (già Premio Goya per il miglior esordio nel 2014 con 10.000 km) affronta il tema del fine vita con Polvo serán (letteralmente, "Saranno polvere"), film già premiato al recente Toronto Film Festival (Platform Award) ora ospitato alla Festa di Roma in concorso Progressive Cinema.

Per farlo mescola commedia, dramma e musical - di grande impatto gli inserti cantati e coreografati dalla compositrice catalana Maria Arnal e dal coreografo Marcos Morau, direttore della compagnia di danza La Veronal - ma, soprattutto, si affida alla straordinaria prova di due attori insuperabili, come Molina e Castro: la prima ex attrice e ballerina, lui drammaturgo e regista, la loro esistenza è legata a doppia mandata al di qua e al di là della realtà. Il film gioca spesso su questo labile confine e l'avvicinamento a questo ultimo atto è un continuo susseguirsi di sipari che si aprono diegeticamente (come nella primissima sequenza del racconto) per farci entrare in questo microcosmo che poco a poco si apre all'esplorazione universale di tematiche profonde e delicatissime, quali le emozioni della vita e il mistero insondabile della morte.

Polvo serán
Polvo serán

Polvo serán

Personaggio solo apparentemente secondario di tutta la vicenda è Violeta (Mònica Almirall), figlia di entrambi e sorellastra di altri due figli avuti da ognuno in altri rapporti, molto legata ai suoi genitori: da un lato comprende la portata di quel legame profondo, dall'altro non riesce ad accettare la loro decisione di morire insieme. In un certo senso è come se Violeta incarnasse i dubbi e le innumerevoli domande che noi spettatori siamo chiamati a porci, le stesse che il buon lavoro del regista continua a far emergere senza ricorrere mai all'ausilio di accatti e ricatti che in situazioni simili sono sempre dietro l'angolo. Anche per questo, forse, si ricorre in qualche occasione all'escamotage musical-coreografico, quasi a voler riempire in maniera evocativa gli spazi che spesso le semplici parole non possono riempire, o che rischierebbero di riempire in maniera banale.

In ballo non c'è solamente una scelta, doppia in questo caso, ma tutto il bilancio di una vita che non si riesce più ad immaginare con l'assenza dell'altro.

Marqués-Marcet non ci obbliga ad essere d'accordo, ma di prendere parte a questa riflessione delicatissima e profonda: "Il film non tratta esclusivamente della malattia terminale o del suicidio assistito quanto, piuttosto, del modo in cui affrontiamo gli affetti e le nostre aspettative di fronte al vuoto della morte. Più che concentrarci sul decadimento fisico legato alle malattie terminali, su cui abbiamo fatto molte ricerche, ci interessava il lato esistenziale ed emotivo della malattia, che porta con sé interrogativi del tipo: come scegliamo di vivere? Come condividiamo le nostre decisioni con i nostri cari? Come ci accompagniamo l'un l'altro nel processo che porta alla fine?".