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Anni Cinquanta. Nei bassifondi di New York – una latrina notturna, inumidita e semideserta - una marmaglia di giovani teppistelli scorrazza con spranghe, borchie e giacche di pelle. Pronti, via ammazzano marito e moglie davanti a un’adorabile coppietta di sposini, Arthur (Harry Melling) e Suze (Andrea Riseborough) mentre rientrano nell’appartamento di casa. Niente Arancia meccanica 2.0 però, e neanche, in fondo, West Side Story: la scia di violenza che inaugura l’opera seconda di Amanda Kramer dal 31 marzo su MUBI, si trasforma subito un pamphlet o forse, meglio, a un divertissement sentenzioso sulla fine della mascolinità tossica: il languido capobanda Teddy, nonostante zuccotto e giacchetto rubati a Marlon Brando (Il Selvaggio), serve solo per invogliare Arthur a picconare la sua disagevole identità di marito virile, eredità paterna contestata fino a quel momento solo inconsciamente. Il giovane, subito attratto dal conturbante fuorilegge, trova il coraggio, così, di polemizzare con il suo ruolo di maschio e di imboccare territori relazionali prima inesplorati. Ma anche la moglie Suze può esplorare strade proibite ed eccitanti: sopra di loro abita la maliziosa Maureen, una “diva dei bassifondi” in pelle di leopardo che riceve gli amanti nel suo minimalista appartamento blu-cobalto: un incontro che innescherà nella donna un’autoanalisi liberatoria dagli esiti imprevedibili.
Proprio la sovrabbondanza del colore è la cifra (e insieme il grande neo) di questo dramma musicato, esuberante e lezioso, torbido e flemmatico, estetizzante e banalizzante: la fotografia di Patrick Meade Jones allaga ogni volto, personaggio e (oggetto di) scena con secchiate di blu notte o di rosso carminio. Ma il ricorso al colore per suggerire l’interiorità dei personaggi è un trucco vecchio quanto il cinema (anzi, a dir la verità molto di più) e qui pare più ostentato che funzionale, più ricercatezza virtuosistica che coerente strumento narrativo e contestuale.
Così, una messinscena così volutamente artificiosa e teatralizzante finisce per mangiarsi il film, condizionare gli spazi scenici, annacquare i temi, stemperare la tensione narrativa in uno spazio-tempo perpetuamente rarefatto ai confini col surreale. A rimetterci è la brillantezza dei dialoghi che pure, nelle premesse, avrebbero una certa verve anagogica e psicanalitica, per non parlare dell’ambizione, decisamente fuori portata, di riportare in vita un immaginario cinematografico mitico e mitizzato per discutere le interazioni fluide della modernità, perché Kramer discute tutto in una vena seriosa e scandalistica stonata e superata dai tempi.
A voler poi fare proprio le pulci alla giovane cineasta ci sarebbe da sferzare anche lo stesso impianto narrativo -più che un musical è un dramma vanesio intervallato da visioni erotiche musicate- e recitativo: l’impressione è che manchi equilibrio nello sguardo registico di genere tra la nevrastenia sovraeccitata di Riseborough, la teatralità voluttuosa di Demi Moore e la paralisi illanguidita di Melling, così come di tutti gli altri comprimari maschili e femminili: statuine rabbiose o civettuole senza rotondità.
Ne esce fuori un film sardonico e verboso, allucinato e didascalico che più che raccontare, pontifica. Eppure, malgrado tutto, la parabola (tragica) di Suse sprizza una certa, contraddittoria modernità: questo camaleonte schizoide capace di fagocitare, assumere e indossare panni non suoi – per quanto (si rivelerà) indifendibile- è sempre coerente a sé stesso e al il suo tempo. Ed è un pregio.