Plastic City: ovvero la contraffazione come tracciato narrativo e segno stilistico. Nelson Yu Lik-Wai, storico direttore della fotografia per Jia Zhang Ke e regista una tantum (Love Will Tear Us Apart, All Tomorrow's Parties), piomba in concorso con un indigesto pot-pourri cinematografico che tratta e ricicla immagini come fossero scarti di un mercato cinese. Inizia come spaccato metropolitano sui traffici della contraffazione sino-brasiliana, si evolve (si fa per dire) in psico-dramma familiare imperniato sul rapporto di un padre avido e un figlio devoto, indulge in banale sociologia urbana, tra ambienti sordidi e fumosi, localini immersi in luci infernali e ghetti di ordinaria brutalità, termina in improbabile digressione panteistica con tanto di alberi sanguinanti e fiumi d'acqua e di parole. Impossibile raccontare una storia, scontornare un personaggio, trovare un minimo comun denominatore. Il mondo della contraffazione è lo spunto narrativo e, come dicevamo, la pratica rappresentativa. Lik-wai sovrascrive immagini e cliche di altri pianeti cinematografici e altri codici (videogame), per inseguire la balzana ambizione di mettere insieme docufiction sociale e parabola sul potere, decadentismo post-moderno e nostalgia per le radici. La deframmentazione da oggetto diventa soggetto, s'impossessa del racconto, le sottotrame si sfilacciano presto, la narrazione si perde in quadri artefatti, dai colori sgargianti e dalle pennellate confuse. A finire distorta non solo la percezione ma anche l'enunciato. A meno che non si accetti l'idea che per raccontare l'imbroglio del mondo e le bugie delle immagini il primo da prendere in giro debba proprio essere il pubblico.