Denatalità. Invecchiamento della popolazione. Collasso dello stato sociale. In Italia (forse) soltanto adesso iniziamo a dibattere intorno alla catastrofe demografica che verrà; in Giappone l’anno già risolta così: hai più di 75 anni? Lo Stato ti paga centomila Yen per ammazzarti.

È il cinico, provocatorio, distopico (c’è da augurarselo) paradosso su cui Chie Hayakawa costruisce il suo Plan 75 (dilatando l’omonimo, propedeutico cortometraggio), esordio alla regia premiato a Cannes (Un Certain Reguard), poi in concorso al Torino Film Festival 2023 tra mugugni, stupore e applausi.

Regia sobria e rigorosa – dozzine di scene fatte con camera fissa, piani americani e qualche lentissima zoomata –, che, nel segno di Kore’eda, non deraglia mai dai binari del realismo; messinscena curat(issim)a che offre sempre un piano visuale (dunque, interpretativo) ulteriore rispetto all’immediatezza del visuale; valorizzazione del fuoricampo; sceneggiatura cadenzata nei ritmi e tripartita nella struttura, Plan 75 è un film-dibattito di grande cura formale sulla più pressante delle urgenze non solo nel Sol Levante, ma in tutte le società occidentali.

Perché si è scritto che il Giappone di Plan 75 è il futuro, e difficilmente futuribile. In realtà è già attuale. E Hayakawa colpisce nel segno sin dai titoli di testa con la carneficina di un giovane in una casa di riposo ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto.

I bersagli della regista, così, sono subito facili da scovare: l’esasperazione produttiva della società capitalista che ha ridotto gli umani in produttori e/o consumatori, ha invecchiato la popolazione, abbattuto la natalità, rubando serenità e stabilità alle giovani generazioni.

I declassati qui, infatti appartengono a tutte le età. Latinano ai margini del cosiddetto benessere, ridotti a anonime comparse di un fatiscente Giappone metropolitano. Hanno il volto rugoso dell’anziana Michi, o impassibile dei giovani Hiromu e Yoko affamati di denaro. Lui venditore del programma di eutanasia promulgato dal governo (Plan 75 appunto), lei centralinista della stessa azienda che, infrangendo le regole, deciderà di incontrare Michi.

La commovente, intramontabile Chieko Baisho, infatti, è la punta di diamante del film: incarna un’anziana che, dopo varie, squalificanti parentesi lavorative, pare rassegnata a morire. Simbolo della rinuncia alla vita della generazione presente per preservare quella futura. Dell’autosacrificio su cui si fonda la prosperità della nazione.

Plan 75, dunque, nel suo cupo portato profetico, nella sua testardaggine a rifiutarsi di dare ogni tesi definitiva, ogni “soluzione finale” al problema, ma soprattutto per i suoi pregevoli squarci di lirismo sentimentale, è un intenerito appello all’empatia in una società solo utilitaristica, oltre che una trenodia ammalinconita sulla fine dell’umano nella società del dominio della tecnica e del controllo centralizzato.

La climax finale, che colora il dramma sociale di punte thrilling, difatti, lucida con grande convinzione discorsiva e pulizia narrativa l’assunto morale che guida in ogni movimento la cinepresa di Hayakawa: anche se non c’è conciliazione tra pubblico e privato, tra Diritto e libero arbitrio, tra leggi collettive e scelte del singolo, esistono sempre le ragioni dell’individuo, la sua possibilità di correggere o irridere il destino. In barba alle ragioni profitto.

Un cinema, dunque, che vuole scuotere, irritare, prendendosi – ancora una volta, per fortuna – la briga di sbatterci in faccia il peggiore dei futuri a cui, giulivi e baldanzosi, stiamo andando incontro, per impedirci di realizzarlo.