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Più buio di mezzanotte
Davide, chi è costui? Capelli lunghi e rossi, sguardo di cerbiatto, gentile fino alla ritrosia, Ziggy Stardust per exemplum inconfesso nella soffitta di casa, ha qualcosa che lo fa assomigliare a una ragazza: androgino, non solo, il cuore batte là dove lui sa. La madre (Micaela Ramazzotti) remissiva e ipovedente cerca di proteggerlo, ma Davide (Davide Capone) nulla può di fronte al padre padrone (Vincenzo Amato), violento e omofobo: ha 14 anni quando scappa di casa e trova rifugio in un parco di Catania, Villa Bellini, con altri emarginati. Una famiglia allargata, dove trova un amico sincero, La Rettore, e altri ragazzi scappati da problemi comunque più grandi di una vita all'addiaccio, fatta di furti, prostituzione (i tanti puppari catanesi…) ed escamotage per tirare avanti. Ma Davide che cosa vuole dalla vita? Lui non si prostituisce, forse si invaghisce di un ragazzo misterioso, tenebroso. Forse. Sebbene non appiattito, solo necessariamente contiguo a quell'habitat marginale, fatto di resistenti e sopravvissuti, Davide cresce, sente che un altro mondo, il suo, è possibile: sulla sua strada non mancano gli orchi vestiti di bianco come agnelli (Pippo Delbono), non latitano le lusinghe dell'asservimento, le difficoltà a dichiararsi per quello che si è, meglio, si vorrebbe essere.
Alla Semaine de la Critique di Cannes 67, e contemporaneamente nelle nostre sale, l'opera prima di Sebastiano Riso, catanese, classe 1983: Più buio di mezzanotte, ispirata alla vita di Davide Cordova, creatore e drag queen (nome d'arte Fuxia) del party Mucca Assassina di Roma. Una tranche de vie adolescenziale, trasformazione e rito di passaggio, con la fuga da casa che apre al mondo: Riso tallona Davide con pudore, senza calcare la mano, piuttosto salvaguardandolo. Sempre.
Ma questa cortina protettiva “da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude”: pro bono che sia, la regia di Riso è contraddittoria, perché se tiene nel fuoricampo – quasi sempre – la violenza inferta a Davide, nondimeno si lascia andare nell'universo di Villa Bellini all'illustrazione, al macchiettismo e – solo un apparente paradosso – all'edificante. Servirebbe maggiore coraggio d'indagine, sia pisco che sociologica, una sceneggiatura più introspettiva, una regia più ardita, più stroboscopica, perché decidere di non entrare nel buio non lo illumina. Il buio rimane là fuori, e qui non si vede.