PHOTO
Geppetto aveva un figlio, Carlo, morto tragicamente a causa di un bombardamento durante la Prima Guerra Mondiale. L'uomo, distrutto dal dolore e in preda all'alcool, anni dopo costruisce un burattino di legno, che magicamente prende vita. E inevitabilmente Pinocchio, questo il suo nome, alimenterà in Geppetto l'illusione di poter riabbracciare il figlio perduto.
Questo è solamente (il lungo) incipit dell'ennesima, nuova versione del classico collodiano, stavolta reinventato da Guillermo del Toro - con Patrick McHale allo script - che si affida alla tecnica di Mark Gustafson per codirigere il film in animazione stop-motion, dal 4 dicembre in alcuni cinema selezionati e dal 9 dicembre su Netflix.
"Ho pensato a una versione di Pinocchio in stop-motion che fosse più vicina a Frankenstein, con un personaggio catapultato nel mondo che, senza preconcetti, deve scoprire chi è, qual è il suo ruolo e perché esiste", spiega il regista messicano, qui al suo dodicesimo lungometraggio, che per certi versi rimanda ai suoi La spina del diavolo e Il labirinto del fauno, fantasy ambientati durante la guerra civile e il dopoguerra spagnolo.
Stavolta, Del Toro si poggia su un testo universale, ne mantiene l'ossatura modificando nome e natura di qualche personaggio (la fata turchina diventa lo Spirito del Bosco e Morte, due sorelle mascherate che donano e tolgono la vita, con la voce di Tilda Swinton; il Conte Volpe - Christoph Waltz è una sorta di fusione tra la Volpe e Mangiafuoco), ma sceglie di ambientarlo in un periodo storico ben preciso, a differenza dell'originale astorico (pubblicato comunque nel 1883): l'Italia fascista degli anni '20-'30.
Sicuramente ardita - centrale da questo punto di vista il ruolo del Podestà (Ron Perlman), padre di Lucignolo (Finn Wolfhard), ma non manca un "cammeo" di un Mussolini nano e caricaturale che il burattino sbeffeggerà durante un'esibizione al circo - la fiaba si allontana com'era prevedibile dalle atmosfere del prototipo animato disneyano del 1940, si fa musical e dark per estetica e contenuti, affida al già Grillo Parlante (qui Sebastian, con la voce di Ewan McGregor) la parola di una narrazione semi-onnisciente, procede per accumulo (di dialoghi e situazioni) allontanandosi da un pubblico di piccolissimi e giocando in continuazione sul doppio registro della satira nei confronti del potere oppressivo e della maturazione di un personaggio per natura inanimato, per magia animato, immortale (e quindi utilissimo come strumento, anche bellico, per la propaganda imperante), che per diventare "umano" (quindi mortale) deve scegliere di sacrificarsi per chi ama. Non basta più essere "buoni", dunque, ma combattere affinché il pensiero dominante, imposto, non abbia la meglio.
Suggestivo, e non poco, in alcuni momenti (si pensi alla "variante" del Paese dei Balocchi, ora campo d'addestramento per giovani fascisti, o alla sequenza con il pescecane), il Pinocchio di Guillermo del Toro - che arriva a pochi mesi di distanza dalla dimenticabile versione live-action mista di Zemeckis - stupisce dunque per la capacità di non prostrarsi in maniera troppo riverente al "modello" di partenza, ma soffre un'eccessiva verbosità, una "legnosità" che finisce quasi per sovrastarne l'impatto visivo, oltre ad una lunghezza (quasi due ore) che si fa sentire.
Difficile prevederne gli esiti in termini di pubblico (impossibile in sala, visto che i dati non ci saranno, su piattaforma bisognerà capire se avrà la meglio la noia tra i più giovani), più facile pronosticarne la presenza ai prossimi Academy Awards.