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Pino
Il valore aggiunto di Pino, terzo documentario in pochi anni dedicato all’indimenticato Daniele dopo Il tempo resterà di Giorgio Verdelli e Nero a metà di Marco Spagnoli, è Francesco Lettieri. È una scelta di campo, precisa e forte, quella di affidarsi a un regista che non è specializzato nella nonfiction: il ritratto del cantautore che ha cambiato la storia della musica napoletana passa attraverso la visione di un autore che ha ricodificato l’estetica contemporanea partenopea.
Riverberando l’attività videomusicale in quella cinematografica in un modo che finora non era riuscito a concretizzare del tutto, Lettieri agisce sugli stereotipi per trasformarli in feticci, interviene sui repertori di un popolo per rinnovarne l’immaginario iconografico, conferma una poetica dello zoom analogico che non è solo strumento narrativo ma anche occasione per produrre nostalgia.


James Senese, Federico Vacalebre e Francesco Lettieri
Va da sé che lo sguardo di Lettieri si esalti soprattutto nella costruzione in quelli che lui chiama interludi, sostanzialmente videoclip di canzoni come Cammina cammina (un anziano che vive nel ricordo della moglie morte), Chillo è nu buono guaglione (la giornata di un femminiello), Quanno chiove (il quotidiano di una prostituta), Allora sì (un amore adolescenziale), ’O ssaje comme fà ’o core (una relazione che nasce e finisce): sono piccoli film interni al documentario, omaggi che testimoniano il legame emotivo e culturale con il cantautore (un catalogo di bassi napoletani, di persone ai margini, di malinconiche appocundrie), pezzi che riposizionano l’eredità artistica in un tempo fluido che travalica il passato e trascende l’attualità.
Detta così sembrerebbero adorabili capricci di un virtuoso ma è nella tessitura dei materiali che Pino rivela complessità e audacia, con le canzoni che definiscono sì l’identità del regista ma dichiarano soprattutto l’eternità di un’opera e di una presenza. Quella, appunto, di Giuseppe Daniele detto Pino, che rivive attraverso l’home movie in apertura (le immagini della famiglia lungamente cercata), le foto consumate dal tempo (il lutto sommerso della sorellina morta infante, il padre violento, le zie salvatrici), i quaderni che annunciano i futuri capolavori, i cimeli dei primi passi nella musica.


Pino
Con la complicità del giornalista e critico Federico Vacalebre (co-sceneggiatore con Lettieri), Pino chiama a raccolta collaboratori, amici, parenti e compagni di strada, quasi tutti ridotti a voci che accompagnano paesaggi e vedute (compreso il peso massimo Eric Clapton), con l’eccezione di alcuni testimoni che raccontano Daniele in luoghi significanti (Enzo Avitabile nel conservatorio della “musica ufficiale” che respingeva il Lazzaro felice, Tony Esposito sul lungomare, il migliore amico Rosario Jermano al bar). Una scelta ardita ma che denota la coerenza e la determinazione di una visione d’autore che non cerca la galleria delle personalità illustri ma si concentra sulle parole che costruiscono mondi e si accordano con altre immagini.
Ma Pino è anche un’amorosa inchiesta – per citare un altro maestro vesuviano – che ricostruisce e restituisce quel che è stato (il leggendario concerto a Piazza del Plebiscito del 1981, le esibizioni in tour, i filmati privati come quello in cui “nasce” Quando con Massimo Troisi) e al contempo si mette sulle tracce degli inediti, dei tesori nascosti nell’immenso archivio digitalizzato sotto la supervisione del figlio Alessandro. Come se l’inaccettabilità della morte – che ha corteggiato il cuore matto di Pino sin dalla fine degli anni Ottanta – possa essere vinta dalla vita che resiste, dai colpi di coda che annullano il tempo perduto. E così, nel sempre più prevedibile panorama dei documentari biografici, Pino è sì affettuoso e fedele ma anche irregolare, sorprendente, essenziale (circa un’ora e mezza, praticamente un miracolo nel suo genere).