Vivere (e male) senza Pino Daniele. A dieci anni dalla morte un altro doc ne celebra musica, vita, quindi napoletanità: nel 2017 fu Pino Daniele – Il tempo resterà firmato da Giorgio Verdelli, ora arriva Pino Daniele – Nero a metà del napoletano Marco Spagnoli, co-sceneggiato con lo storico produttore dell’artista Stefano Senardi (qui anche voce narrante interna). Producono Fidelio e Eagle Pictures che distribuirà anche il film in sala dal 4 al 6 gennaio.

Intimo ed rigoroso, archivistico e sentimentale (com’è, in fondo, la musica di Pino), il doc, tramite gli incontri di Senardi – che torna dopo un decennio a Napoli – con chi ha collaborato, conosciuto, semplicemente amato il cantautore, si premura subito di togliere la polvere agli esordi del giovane cantante: la passione bruciante per la chitarra imparata da autodidatta nel rione Porto con Enzo Gragnaniello, i primi passi con i New Jet prima e con la “leopardiana” Batrachomiomachia poi, l’esperienza da bassista con i Napoli Centrale di James Senese, uno dei tanti prodigi musicali con cui dividerà il palco fino alla morte.

Poi, nel 1977 ecco l’esordio folgorante con Terra mia, album che, alla stereotipia di pizze e mandolini preferiva l’arido vero del disagio popolare; la conferma del talento e dei temi denunciatori arriva due anni dopo con Pino Daniele, la consacrazione nazionale nel 1980 con Nero a metà.

Album capitale, manifesto ed emblema di una (vita e di una) musica intesa più come “una missione che una passione” (Pino dixit). La chitarra come termometro del sentire e dei disagi del suo popolo (“ho visto morire bambini/ Nati sotto un accento sbagliato”), e insieme bussola per una ricerca musicale che diventa sempre meticciato (italiano, inglese e napoletano), incontro, affratellamento tra musicisti, laccio di sonorità intercontinentali perché interne (Napoli, sede Nato, dal dopoguerra custodiva le musicalità dell’America dentro i suoi rioni): per cui ecco che la chitarra di Pino il blues abbraccia il soul, il rock (dell’idolo Eric Clapton) il folk (Roberto Murolo), il jazz il funk per sfociare nel celebre “tarumbò”.

Dalla viscere della tradizione, sgorga una sperimentazione inaudita che diventa subito rivoluzione, in un periodo di florilegio musicale che vive Napoli a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, suggellato dal concerto evento a Piazza del Plebiscito nel 1981, quando Daniele salì sul palco con la super band che oltre a Senese, annoverava Tullio De Piscopo, Joe Amoruso e Tony Esposito, esattamente un anno dopo il terremoto che aveva flagellato l’Irpinia.

Tra il rigoroso e l’aneddotico, tra foto, filmati d’archivio, frangenti cantati da artisti emergenti e tante interviste (montaggio a cura di Jacopo Reale che aveva cucito anche Franco Battiato – La voce del padrone, ultimo doc musicale di Spagnoli), si snoda un film tutto dialogico, intriso di nostalgia e vitalità, che non schiva l’appucundria, ma alla devozione acritica e al luogo comune preferisce la ricerca delle radici, l’analisi, la (ri)scoperta, il dialogo epifanico, l’incontro rivelatorio.

Tante le talking heads, infatti, che si avvicinano a Senardi per mosaicare Pino Daniele: Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Enzo Avitabile, Enzo Gragnaniello, Gigi De Rienzo, Tony Cercola, Gianni Guarracino, Paolo Raffone, Roberto Giangrande, Fausta Vetere, Mauro Di Domenico, Jenny Sorrento, Teresa De Sio, Pietra Montecorvino, Ernesto Vitolo, Bruno Tibaldi, Claudio Poggi, Peppe Ponti, Lino Vairetti, Gino Castaldo, Carlo Massarini, Cristina Donadio, Viola Ardone, Miriam Candurro, Lello Esposito e Raffaele Cascone.
E pluribus unum, dunque. Perché nella varietà accorata di voci, nell’esaustività di testimonianze e memorie, s’impone una costante: la rivoluzione di Daniele è ancora attuale, l’addio non è una possibilità, la sua lezione in questi anni amari perdura. Inquieta. Commuove.

Perché “la musica musica è tutto quel che ho”.