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Piggy
Piggy (Porcellina) ha un nome, Sara. È una ragazza sovrappeso, che vive una squallida vita di provincia in un borgo rurale dell’Estremadura. Vita che Sara ha sempre meno voglia di vivere, a causa degli atti di bullismo dei coetanei nei suoi confronti. L’ultimo, feroce quanto gratuito, si consuma all’interno della piscina pubblica all’aperto del paese; ma quando le tre ragazze responsabili saranno rapite da un maniaco omicida, il coltello dalla parte del manico passa in mano a Sara. Che, testimone dell’evento, dovrà decidere se vendicarsi o salvarle.
È il bullismo, quello più insopportabile perché basato sul body shaming, il nucleo portante di Piggy, esordio della regista spagnola Carlota Pereda, che per l’occasione amplia il suo cortometraggio del 2018 Cerdita (l’equivalente spagnolo, appunto, di “piggy”), mantenendo la sorprendente protagonista originale Laura Galàn, 37enne di Guadalajara perfettamente a suo agio come ragazzina terrorizzata dal mondo e dalla vita. La sintonia con la regista è perfetta, e sia nel corto che nel lungometraggio la fisicità della protagonista è esibita in modo impietoso, senza giri di parole.
Il corpo di Sara diventa presto parte del paesaggio, della città, esteriorizzazione del frustrante disagio di provincia, scrigno inespugnabile delle emozioni della protagonista, impossibilitata dagli altri e da sé stessa a dire ciò che pensa, o ciò che ha visto. Il body shaming è un tema molto forte, in grado di garantire al film un setup di sicura potenza. Non a caso, il cortometraggio originale era basato integralmente sulla sequenza di bullismo in piscina, e sulla decisione di Piggy di lasciar andare il maniaco con le sue aguzzine, accontentandosi di riprendere i suoi effetti personali: un finale beffardo, stemperato da una colonna sonora pseudopunk, ma ugualmente poco rassicurante.
Purtroppo il film, dovendo ampliare il tutto a un’ora e quaranta, non riesce ad avere la stessa potenza: la rappresentazione dello squallore è sempre di grande efficacia, e la scena in piscina è girata perfino meglio (con un bellissimo controluce che impedisce a Sara di vedere in faccia il maniaco mentre spunta fuori dall’acqua, regalando alla scena un suggestivo sottotesto erotico assente nello short). Non c’è molto altro, oltre all’idea di partenza da gonfiare a ogni costo: e così Sara si aggira, timida e repressa, tra genitori macellai didascalici nella loro castrante volgarità, e personaggi secondari completamente privi di profondità che avrebbero meritato ben altro sviluppo (come padre e figlio agenti della Guardia Civìl).
Ma soprattutto, a essere incerta è la direzione che Pereda vuole imprimere al film, tra sprazzi superflui di black comedy che inficiano la cruda durezza iniziale, e un grand guignol finale del tutto fuori contesto (con tanto di arti mozzati e giugulari sanguinanti), fintamente crudele perché, anziché portare il concetto malato di vendetta ad estreme conseguenze degne di un revenge movie anni ’70, tradisce le proprie premesse facendo compiere alla protagonista un voltafaccia tanto rassicurante quanto incoerente. Manca del coraggio, a questo Piggy, che il corto lasciava intravedere: quello di rivendicare la propria amoralità, in un universo che di morale non ha nulla, e di realizzare con un analogo dropout la propria malata idea di amore. Ma insomma, di Malick in giro ce ne sono pochi: e così, Piggy si autoconfina mestamente in una serie di cliché da film di genere. Il che non inficia la visione, ma la consegna all’oblio quasi immediato. Un vero peccato.