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“Ma tu chi sei?”. E lui alza lentamente lo sguardo, fisso in camera, come se fosse sul punto di ferire la vittima designata; finché, con un violento manrovescio, cade rovinosamente a terra: è lui stesso la vittima, l’anima ferita a morte contenuta in un corpo da offrire in sacrificio. È un momento decisivo per capire la forza disperata e perfino folle di Pig, sorprendente opera prima di Michael Sarnoski abitata da un clamoroso Nicolas Cage, la cui credibilità si edifica proprio sul malridotto statuto divistico di un attore fuori misura.
È difficile immaginare nei panni lerci e sotto la barba trasandata di Rob, solitario ex chef stellato, protagonista di questo thriller cupo e struggente, qualcuno che non sia Cage. Alle prese con uno dei circa venticinque ruoli (la cifra non è iperbolica: controllare per crederci) sostenuti nell’ultimo lustro, colui che è ormai diventato – soprattutto per ragioni squisitamente economiche – un principe del b-movie riesce a emanciparsi dalla routine offrendo una prova impressionante.
Livido e crepuscolare, Cage espone i brandelli della sua icona e incarna un uomo derubato della pace faticosamente raggiunta, consapevole che un ruolo del genere – figura quasi cristologica in cui è facile leggere in filigrana il riconoscimento e l’identificazione dell’attore – lo esponga alla possibilità di far affiorare la sua dimensione maudit.
Ridotta in poche parole, la storia di Pig sconfina nell’assurdo: Rob vive in una capanna nella foresta dell’Oregon con una maialina da tartufo. Quando rapiscono la fedele suina, si mette alla caccia dei sequestratori, accompagnato da Amir, giovane fornitore di ristoranti di lusso: dovrà tornare nei luoghi della sua prima vita, a Portland, affrontare il passato, chiudere i conti con quello che aveva lasciato in sospeso.
Complice la presenza del simpatico animale citato nel titolo, l’ironia potrebbe essere dietro l’angolo ma Pig si rivela ben presto una dolente riflessione sulla perdita, sul conflitto tra wildness dove ritrovare se stessi e metropoli cannibale, sul valore degli affetti incomprensibili in un mondo dominato dalle logiche del capitale e del conformismo, sul cibo come esperienza in grado di creare memoria (Amir e il ricordo felice di una cena nel vecchio ristorante di Rob).
Un film di fallimenti e ricostruzioni che Sarnoski ha l’intelligenza di disegnare non come un revenge movie contro i rapitori né con le marche dell’action on the road, collocandosi in uno spericolato quanto affascinante territorio rigoroso e selvaggio, poetico e avventuroso, spirituale e carnale. Con un finale potente per durezza e commozione. Budget ridotto, ambizioni alte, risultato ottimo: tra i titoli indie più amati e lodati dell’anno.