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Capita, durante la visione di Piazzolla. La rivoluzione del tango, di farsi lambire dalla tentazione di guardarlo a occhi chiusi. È chiaro, la chiave d’accesso al personaggio è anzitutto musicale: dici Astor Piazzolla e configuri immediatamente un mondo, quello del nuevo tango, e una terra, l’Argentina degli emigranti, che su quel suono così iconico ha plasmato un’identità nazionale e segnato un intero secolo.
E però la tentazione va evitata, perché il documentario di Daniel Rosenfeld trova la sua forza proprio attraverso le immagini. Per la prima volta Daniel, figlio del leggendario bandoneonista, ha aperto gli archivi di famiglia, mettendo a disposizione istantanee private, fotografie inedite, riprese in super8. E il regista ha sfruttato al meglio la possibilità, ricostruendo la vita di Piazzolla completandone il profilo pubblico e artistico con la dimensione più intima e familiare.
Ne viene fuori un documentario potentemente evocativo, celebrativo quanto basta per onorare la ricorrenza del centenario (Piazzolla nacque l’11 marzo 1921 a Mar del Plata da genitori di origini italiane) eppure capace di indagare la rivoluzione musicale all’altezza dell’incidenza socio-culturale locale così come dell’impatto emotivo sulla popolazione globale.
Dell’artista emergono la fame di ricerca, lo sperimentalismo d’avanguardia e la volontà di spingersi oltre i canoni tradizionali, ma l’interesse è rivolto anche all’uomo, al suo spirito avventuroso, alla passione per le sfide assurde (la caccia agli squali), al desiderio di dialogare con le radici (l’esperienza in Italia, con le collaborazioni con Mina e Milva).
Attraverso una narrazione più percettiva che didascalica, Rosenfield sa trasmettere la lancinante malinconia di un suono destabilizzante, che incorpora elementi presi dal jazz e fa uso di dissonanze e altri elementi innovativi, piombato all’improvviso non solo per interrogare i sogni e i bisogni di un popolo ma anche per rappresentare il conflitto personale di un cittadino del mondo diventato icona nazionale.