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Phantosmia di Lav Diaz
Lav Diaz torna alla Mostra di Venezia (dove nel 2016 vinse il Leone d'Oro grazie al meraviglioso The Woman Who Left), stavolta Fuori Concorso (come nel 2022 con When the Waves are Gone), con Phantosmia.
Titolo già di per sé fortemente evocativo, il film prende le mosse dai diari scritti nel 1979-80 dal sergente maggiore Hilarion Zabala.
Affetto da una misteriosa allucinazione olfattiva (fantosmia, appunto), l'uomo (Ronnie Lazaro) non ha mai fatto i conti con il suo oscuro passato di militare e poliziotto violento e omicida. Riassegnato alla remota colonia penale di Pulo, deve anche fare i conti con le orribili realtà della sua situazione attuale.
Dilatato come d'abitudine (4 ore e 5 minuti la durata), il film di Lav Diaz parte come solitamente iniziano le fiabe, con l'immagine di un angolo di natura (la curva di un fiume in una foresta) e una voce fuori campo che sottolinea il passaggio dal paradiso all'inferno.
L'inferno è quello di un paese sotto la dittatura di Marcos, della legge marziale (come sempre Diaz parla di ieri per ragionare sull'oggi, con il figlio di Marcos a guidare il paese dopo Duterte), di un uomo - il sergente Zabala - che ha contribuito a perpetrare quelle violenze, tra pestaggi e omicidi.
Phantosmia è dunque un film che da un lato impone al suo protagonista di cercare il modo di affrancarsi da quell’odore nauseante che percepisce solamente lui (causato da un trauma non risolto), dall’altro – e questo sarà poco a poco più comprensibile quando “l’azione” si sposterà solo e unicamente nei pressi della colonia penale – ragiona sulle logiche del sopruso, dell’abuso, della violenza che si annidano ormai a qualsiasi livello tra gli esseri umani.
Deputato a controllare l’accesso secondario della colonia penale (dentro la quale, va detto, succede poco o niente), sotto il comando di un superiore esaltato e violento, Zabala finirà con il tempo ad interessarsi maggiormente di quello che accade al di là di quel cancello, in quella capanna-locanda che metaforicamente racchiude l’inferno di un paese intero: la giovane Reyna (Janine Gutierrez), ipovedente, è costretta dalla madre adottiva a prostituirsi con guardie e prigionieri della colonia.
Probabilmente meno compatto e riuscito rispetto ai suoi soliti standard, il film di Lav Diaz riesce però come sempre a stimolare riflessioni mai banali, partendo dalla più diretta (ovvero secondo quale diritto gli esseri umani uccidono altri esseri umani?) per arrivare a quella più profonda, relativa ai condizionamenti “che influiscono sulla nascita di sistemi fascisti, autoritari, feudali e barbarici”, come ricorda il regista stesso.
Che nel finale si apre alla possibilità di un cambiamento e che mai come in questa occasione si diverte anche a “sperimentare" sul dispositivo: in un film che prende le mosse dalle allucinazioni olfattive, Lav Diaz dissemina alcune sequenze (soprattutto quelle nel cuore della foresta) di “allucinazioni” visive, giocando con la velocità dei fps e generando in questo modo situazioni in cui i soggetti in campo – tanto gli esseri umani quanto la vegetazione circostante – si muovono più velocemente (quasi in 2x).