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Denis Menochet e Isabelle Adjani in Peter von Kant di François Ozon © C. BETHUEL, FOZ
A ventidue anni da Gocce d'acqua su pietre roventi (2000), François Ozon torna a confrontarsi con il lascito cinematografico e culturale/iconico di Rainer Werner Fassbinder. Peter von Kant, film d'apertura della settantaduesima Berlinale (presentato ieri sera con un'interruzione tecnica dovuto ad un corto circuito al Berlinale Palast), non è solo una rilettura al maschile di Le lacrime amare di Petra von Kant, dapprima testo teatrale e poi adattamento cinematografico firmato da Fassbinder nel 1972, ma soprattutto un ricamo sulla figura dell'autore tedesco, attraverso il prisma del suo testo. Al contempo, l'operazione che Ozon architetta offre un interessante spunto di riflessione sull'approdo della sua prolifica carriera, a due decenni dai suoi esordi e in rapporto alla figura luminare di Fassbinder.
Siamo a Colonia, nel 1972, e Peter von Kant inizia sintomaticamente con un aprirsi di tende, gesto che rimanda alla natura teatrale del testo, ma anche ad una più sostanziale natura performativa del palcoscenico di vita su cui si consuma la tragedia del protagonista. Ad aprire il sipario e preparare la scena prima del risveglio dell'antieroe eponimo è il suo silente servo, Karl (Stefan Krepon), tuttofare, quasi schiavo, che ubbidisce in apparente adorazione ad ogni capriccio del suo padrone. E poi, sì, c'è lui, il cineasta larger-than-life Peter von Kant (Denis Ménochet), massiccio e melodrammatico, autore omosessuale dichiarato che ha dato voce agli 'altri', donne e marginali, ricevendo lodi e premi a livello mondiale. Von Kant esce da una relazione che dichiara d'aver interrotto lui stesso e indulge nell'ascolto di una versione tedesca di Each Man Kills the Thing He Loves, l'immortale brano interpretato da Jeanne Moreau nell'ultimo film di Fassbinder, Querelle (1982), qui rivisitata da una stella del cinema di von Kant, Sidonie (una ben ritrovata Isabelle Adjani). Proprio una visita di Sidonie, porta von Kant all'incontro con un giovane aspirante attore, Amir (Khalil Ben Gharbia), che accende nel regista il desiderio e l'ispirazione e lo porta rimettersi in gioco, sentimentalmente e professionalmente, nonostante l'incombente minaccia delle sue tendenze autodistruttive.
Per chi ha familiarità con l'opera del grande cineasta tedesco, sarà evidente e divertente individuare i rimandi alla vita e ai film di Fassbinder che Ozon ha sapientemente intrecciato al testo sulla tragedia di Petra von Kant. Ma per quanto scaltra, professionale e ben oliata, l'operazione messa in scena dal regista parigino rivela anche l'abisso che lo separa da Fassbinder. Perché se Le lacrime amare di Petra von Kant era una tragedia condita dall'inevitabile ironia dell'assurdo della vita, Peter von Kant sin dalle battute iniziali si carica di una consapevolezza di secondo grado della lettura in cui l'ironia stempera il dramma, riducendone la portata e l'impatto. Nonostante l'impegno di Ménochet, Peter von Kant non assurge mai a potente figura tragica, nemmeno allorché versa le sue lacrime amare. E persino l'apparizione nel ruolo della madre di von Kant di Hanna Schygulla, che fu nel cast del film di Fassbinder, risulta a conti fatti leziosa. Non a caso, ad uscirne meglio è Khalil Ben Gharbia nel ruolo di Amir, giacché il suo conscio passaggio dall'ingenuità alla scaltrezza arrivista e al rimpianto sono più nelle corde di Ozon.
E qui si può chiosare su come una ventina d'anni fa, alla luce di Gocce d'acqua su pietre roventi e dello splendido Sotto la sabbia (2000), c'era chi, come chi scrive, credeva e s'era illuso che il prolifico Ozon si potesse affermare come un erede o un epigono di Fassbinder. Peter von Kant, invece, ribadisce e conferma la distanza tra i due autori, specchio anche di tempi e contesti politico-culturali diversi: laddove nel cinema di Fassbinder si sentivano il sudore, il sangue, il sesso e le lacrime di un regista che portava alta la bandiera non riconciliata della diversità e dell'alterità, nel percorso di Ozon, invece, si è assistito all'imborghesimento di quelle istanze, addomesticate dall'ironia e dal buon gusto medio. Nel 1982, Fassbinder vinceva l'Orso d'oro a Berlino con uno dei suoi più fulgidi capolavori, Veronika Voss; quarant'anni dopo, si può dubitare che l'omaggio a Fassbinder di Ozon con Peter von Kant possa e meriti di ripetere tale exploit.