È un cinema gravido di sospensioni, di silenzi evocativi, di premonizioni, attese, paranoie, epifanie, fantasmi e inquietudini quello dell’egiziano Muhammed Hamdy, già direttore della fotografia e co-produttore del doc The Square (2013), ora all’esordio dietro la macchina da presa per una storia dal tempo sospeso, dal passo felpato, dalla quasi totale inerzia narrativa, dalla robusta e ponderata componente dialogica, dove lo scandaglio interiore si sublima in accensioni continue di realismo magico.

Nella composizione visiva studiatissima con la camera fissa che insiste sul contrasto, sovente pittorico, tra luci e ombre – la fotografia, come la sceneggiatura, è curata dallo stesso regista – per estroflettere l’interiorità scissa delle creature, nelle fughe ombrose e un passato che ritorna come di un futuro quanto mai traballante, il regista celebra l’amicizia come sacro vincolo mentre intorno, Il Cairo, è simbolicamente quanto mai calcinoso, spettrale, svuotato, in disfacimento, lacerato ancora dalle tensioni sociali.

Su questo humus stilistico-tematico germogliano le traiettorie esistenziali di Bahaa e Madhy. Due amici lontani e ora ritrovati, ognuno in lotta con i propri demoni. L’uno, medico trent’enne che soffre per una donna lontana, l’altro alle prese con germogli di menta che gli spuntano tra i capelli, la cui fioritura si può interrompere – non fermare –  solo fumando hashish. Il ragazzo, inseguito da strane ombre, è a caccia di cura e rifugio, Bahaa se lo ritrova sul lettino e non lo abbandona più. In una nuvola di fumo trasvolano tra la case rovinose della città, alla ricerca di una stabilità sempre precaria e di una quiete che più che spaziale è interiore, più che geografica è intima.

L’oppiaceo come sedativo, oltre che aggregatore di solitudini, la tetra angoscia di situazioni eternamente sospese, un nemico invisibile da cui fuggire, l’Egitto in tumulto, i morti che rifiutano di morire, menta che sboccia in testa e lettere che gocciolano in eterno, Hamdy innesta sul realismo una felice sovradimensione magica, simbolica ed evocativa, giocando sulla potenza evocativa, perfino lirica delle immagini.

Ne esce fuori un film cadenzato e sussurrato, dalla forte e riconoscibile impronta visiva, segnato da felici contrasti cromatici e tutto percorso da uno strisciante senso di disgregazione. Hamdy indaga la tradizione e la modernità, l’immanente e il caso, il reale e l’inconscio, lo spettro e la paura, la ferita paranoide e l’anelito di redenzione. Si accosta con garbo e accarezza le sue creature, intrappolate in una discrasia di tempi, in un’inclemenza di eventi storici che funestano il destino individuale. All’eterna ricerca di quel germoglio di pace, di quel bocciolo di resilienza, che unisce, che placa, che guarisce. Oltre le sospensioni del tempo.