“E noi che sapore abbiamo, Paul?”

È la provocazione finale che la disinvolta Paulette rivolge al giovane amico incontrato, pochi mesi prima in un boulevard parigino. La messa in scena del ghigliottinamento di Maria Antonietta di Francia aveva innescato una travolgente amicizia, bizzarra e morbosa, che si sostanzia di un gioco tanto perverso quanto eccitante: rimettere in scena in prima persona cruenze e massacri storici nei posti dove sono avvenuti. Tra l’appartamento bavarese di Hitler e il Bataclan si sviluppano le bizzarrie, le fughe in avanti e i ritorni di due strambi giovani alla ricerca di affetto e comprensione. Un’amicizia travolgente che sembra preludiare all’amore perché se l’immobiliarista Paul, fotografo rinnegato, che s’intrattiene anche con la capa d’ufficio, s’innamora di Paulette, la ragazza ama, invece, Margherite.

Tuttavia, se la mente corre subito, nonostante le differenze d’età ad Harold & Maude, per Jethro Massey (anche sceneggiatore del film) la commedia di Ashby rimane solo un’architrave innestare e variare questa rom-com itinerante, folle, necrofila e vitale a tinte chiaroscurali che per un tratto cede il passo anche al più classico dei road movie. Oltre lo scandaglio psicologico dei due giovani, fulcro polemico della storia è anche e soprattutto la latente omofobia che percorre e separa tuttora le generazioni nella Francia (e nell’Occidente) contemporanea: Paulette ha reciso ogni legame con la madre e il padre da quando hanno misconosciuto e rinnegato la sua natura saffica. E il nuovo incontro con i genitori non farà che acuire incomunicabilità, malessere e discriminazione.

Disinvolta e atrabiliare, fascinosa e bisognosa d’affetto, il personaggio incarnato da una estrosa, poliedrica Marie Benati è tra i più felici di una sceneggiatura in sé ricca, approfondita e sfaccettata, capace di attraversare le epoche e rielaborare i linguaggi per rivestire di verosimiglianza e tridimensionalità i due personaggi principali, presi nella singolarità di passioni (la fotografia per lui, Elvis Presley e Marylin Monroe per lei) e stranezze.

Il pas de dieux, così, che rimembra alla lontana anche certe sospensioni narrative, e deambulazioni da Nouvelle Vague, si rivela ben recitato e vibrante nelle oscillazioni continue tra momenti di grazia e attimi di sprofondo, tra il vitalismo perverso e la vena necrofila che sostanzia la vita dei ragazzi, capaci di creare un rapporto tanto singolare quanto totale: sensoriale, epidermico, affettivo, (sapio)sessuale, platonico. Un legame che sorvola incasellamenti e definizioni di sorta.

Merito anche di una regia equilibrata, dallo spirito dissacrante, che sa modulare i vari registri espressivi, tenendo l’humour come Azimut, mentre si fa apprezzare il riuso di foto d’epoca sin dai titoli di testa in senso tanto espressivo quanto narrativo (il montaggio è a cura di Julien Chardon) a rendere presenti e alleggerire insieme il carico di violenze, massacri e cruenze della Storia.