Una croce viene sradicata da un terreno interessato da lavori edili. Con tanto di caschetto sulla testa, è proprio un prete ad aiutare gli operai a innalzare la croce per poi portarsela via su un camioncino. Così facciamo la conoscenza di padre Simon, da tutti apprezzato e stimato per il suo impegno indefesso a servizio del proprio gregge, e per questo – nonostante i pochi anni di sacerdozio – anche decano della zona. È un uomo mite ma capace di far sentire la propria voce quando è necessario, è un pastore fedele alle tradizioni e allo stesso tempo in grado di valorizzare nuovi stili della vita presbiterale, come nel caso della vita comune con padre Amine, suo vicario.

Tutto questo viene messo a dura prova dall’arrivo di Louise, una donna con la quale aveva avuto una relazione da seminarista – si intuisce che la sua è stata una vocazione adulta – e, a sua insaputa, anche un figlio, Aloé, undicenne. La donna non vuole né denaro, né nessun tipo di ricatto morale, ma ciò che desidera è un padre per il ragazzo, a conoscenza della situazione. Simon dovrà affrontare questa complessa situazione, cercando di conciliare paternità spirituale e paternità biologica.

Paternel, debutto alla regia del montatore Roman Tronchot, anche sceneggiatore del film, con garbo affronta un tema originale sebbene non inedito al cinema (anche se sarà difficile che Tronchot abbia visto il nostrano Papà dice messa con Renato Pozzetto e Teo Teocoli), convincendo parecchio nella prima parte del film e scivolando nella seconda, che si abbandona a una facile e confusa retorica sulla messa in discussione del celibato ecclesiastico nella Chiesa latina.

La descrizione della vita quotidiana di una parrocchia è molto realistica e frutto di ricerca accurata, tuttavia a parte padre Simon, ben interpretato da Grégory Gadebois, vincitore del premio César per Angèle e Tony (2012) e di recente visto ne La verità secondo Maureen K. (2022) e La misura del dubbio (2024), i personaggi secondari sono piuttosto abbozzati e ridotti a una funzione didattica. E fra questi c’è anche il piccolo Aloé, piuttosto sacrificato nella sceneggiatura e poco approfondito.

E così ciò che emerge, via via che il protagonista prende atto dei propri doveri di padre, è un quadro piuttosto tenero sull’amore paterno che Simon, nonostante l’ineccepibile spiegazione del valore e della convenienza del celibato come occasione di amore disinteressato e gratuito verso i propri fedeli, inizia a mettere in dubbio nella sua rinuncia a una paternità più propriamente detta: “Perché tutti possono chiamarti padre e io non posso dirti papà?” gli confessa Aloé.

A far scricchiolare la seconda parte del film, oltre alla netta ispirazione al classico Kramer contro Kramer (1979) nel momento in cui padre e figlio vengono abbandonati dalla madre, è la messa in discussione delle regole ecclesiastiche – cui padre Simon è sempre sembrato essere legato (“Hai sempre cercato il come e mai il perché” gli dice un suo vecchio professore universitario) – in nome a una presunta modernizzazione della Chiesa e della figura presbiterale che debba rispondere ai desiderata della gente, quando Simon era già pienamente su quella strada con scelte di vita e di stile capaci di vedere nell’altro qualcuno da accogliere e mai da giudicare.

Una croce viene sradicata all’inizio per essere indossata dal protagonista che, nonostante ne venga schiacciato, non perde mai la fede, né il principio della sua vocazione (sebbene nessuno mai ponga in essere il suo aver mentito circa la relazione con Louise a pochi passi dall’ordinazione). Un buon esordio e un ottimo soggetto. Ci sarà tempo e modo per Tronchot di crescere come regista e come sceneggiatore.