Un piccolo capolavoro con un budget ridotto e un cast non retribuito. La maggior parte degli attori, Francesco Patierno li ha reclutati tra la mala napoletana, e a quei pochi professionisti che li affiancano ha dato l'ordine di "non recitare".
La storia è una di quelle che non vorremmo mai sentire, e proprio per questo il regista ha deciso di raccontarla. La sua ossessione è da sempre la verità, dice. Soprattutto se scomoda come quella di Matteo, il protagonista finito in carcere per aver ucciso il violentatore della sua fidanzata. Un giovane come tanti, in un paese come tanti dell'hinterlando napoletano. A casa torna soltanto per un giorno di licenza, ma tanto basta perché passato e presente si confondano in gioco di flashback.
Quello che ne emerge è un desolante quadro di povertà sociale e culturale, di legami familiari inesistenti e di violenze domestiche all'ordine del giorno. Le immagini suggeriscono più che mostrare e il realismo colpisce allo stomaco senza scivolare nella spettacolarizzazione.
Bravo l'infermiere Massimo Cacciapuoti che ha scritto l'omonimo libro a cui è ispirato Pater Familias, e bravo soprattutto Mauro Marchetti che ha diretto la fotografia. Primissimi piani, ralenti, fuori fuoco: gli artifici a cui ricorre rispondono tutti all'ordine dell'iperrealismo. Lo stesso impartito agli attori. Tutti sconosciuti a parte Marina Suma ed Ernesto Mahieux (L'imbalsamatore), la maggior parte vengono dalla strada e alcuni sono già tornati in carcere.
Patierno sapeva di non poter pretendere il metodo Stanislawski e quindi ha chiesto loro di essere spontanei.
Con tutte le vere botte, i lividi e la violenza che ciò ha comportato. Una scelta estrema, che da sola parla di tutto il film.