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Parigi
C'è tutto Cèdric Klapisch, pregi e difetti, in questo affresco parigino. C'è la grande città europea, oggetto e soggetto del racconto: ideale centro del mondo e topografia simbolica di tracce, luoghi, persone che si sfiorano, si scontrano, si trasformano. Tracce da seguire. Parigi, come Barcellona (L'appartamento spagnolo) e Londra (Bambole russe), città da perlustrare nei suoi mille rivoli, nella sfaccettatura dei suoi dettagli, nella proliferazione delle sue contraddizioni, tra classicismo e avanguardia, vecchio e nuovo: la solennità della Tour Eiffel, gli schiamazzi del mercato ittico, gli odori della bottega del pane e, di contro, l'edificazione sulla Rive Gauche, il nuovissimo atelier di moda, la moderna centrale della carne e del pesce. Stratificazione di relique, di epoche, di mode. E malinconia, ce n'è tanta in questo ultimo lavoro di Klapisch mista alla proverbiale ironia, sentimento dello scorrere inesorabile del tempo, specularità di rovine e memorie, e coscienza baudelariana che "più veloce di un cuore cambia l'aspetto di una città" (Il cigno). In questo omaggio alla Parigi che fu e a quella che sarà, - che si riallaccia allo spirito di un altro grande francese, il Walter Benjamin dei Passages - con i volti più amati del cinema transalpino (Juliette Binoche, Fabrice Luchini, Albert Dupontel, tra gli altri) e il suo affondare nella nazionalissima tradizione del marivaudage, Cèdric Klapisch mette in scena tutto il suo cinema e, insieme, un'ansia nuova d'invecchiare. Non a caso delega al suo attore feticcio, l'esuberante Romain Duris de L'appartamento spagnolo, il ruolo più introspettivo, il compito di rappresentarlo e di osservare dall'alto, l'incombenza (forse) di morire. Nel personaggio di Duris (Pierre), figlio del Remy di un altro film francese, Le invasioni barbariche, malato gravemente, immalinconito e saggio, si avverte il taglio doloroso con il giovanilismo del passato e forse una nuova stagione per il regista francese. Ma anche i difetti di un autore che indugia nel sentimentalismo, si abbandona alle tentazioni di uno sguardo totalizzante e paga pegno alle sue ambizioni abusando in cliché (il gioco seduttivo tra il professore e la studentessa, la ricca borghesia e il proletariato) e figurine (una su tutte: la fornaia ignorante e razzista), calcando la mano con scontati riferimenti all'attualità e ritagli di giornale (la tragedia dell'immigrazione). In un tentativo di avvicinarsi al cuore delle cose sempre troppo programmatico e denotativo per emozionare davvero. E in un miraggio di vita che vita non è, ma sofisticata simulazione, robusta scrittura e, ahinoi, compiacente e compiaciuta messa in scena.