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Paradiso amaro
E' la malinconia a farla da padrone in Paradiso amaro (The Descendants): sono "eredi" meno spassosi dei protagonisti di Sideways, ma infinitamente più assertivi, anche se costa fatica. Con 5 nomination agli Oscar (film, regia, sceneggiatura, attore protagonista e montaggio), Alexander Payne offre a George Clooney un ruolo da tenersi stretto e ricordare, magari con una statuetta in mano: il gigione, il guascone e il cialtrone Clooney non abitano - a parte sparuti motteggi - più qui, e non se ne sente la mancanza.
George è l'avvocato Matt King, discendente di una delle più antiche famiglie hawaiiane e, con i cugini, proprietario delle ultime terre vergini dell'arcipelago. Terre da vendersi, così vuole l'antitrust, in 7 anni: gli acquirenti non mancano, sul piatto c'è fino a mezzo miliardo di dollari, due cugini sono contrari, Matt e i più favorevoli. Eppure, Matt è diverso dai parenti: non scialacqua, eppure potrebbe, e - come già il padre - dà alle due figlie abbastanza per fare qualcosa, non così tanto perché possano non fare niente. Ha anche una moglie: bella, indipendente e indomita, ma ormai da coniugare al passato. Causa incidente nautico, è in coma e - scopriremo - non è, non è stata una santa: Matt deve elaborare più di un lutto e, soprattutto, provvedere in solitaria alle due figlie, diversamente ma ugualmente difficili. Ce la farà?
A rispondere è la sua vita, che forzatamente non sarà mai più quella di prima, a rispondere è soprattutto Alexander Payne, anche co-sceneggiatore dal libro di Kaui Hart Hemmings (Newton Compton), che gli tiene la camera addosso, nonostante ci fossero i temi ultra-sensibili - testamento biologico, proprietà privata - per prendere la tangente. Invece no, complice questo Clooney trattenuto, minimal e un cast indovinato e ben guidato, Payne riesce a carburare con fatica una riflessione multiprospettica su lutto e rinascita, perdita e “guadagno”, sparigliando l'anagrafe - meglio, le anagrafi - del coming of age.
Perché queste Hawaii non sono da cartolina, ma da memento (mori) e testamento esistenziale, più che biologico: ambizioso, a tratti involuto - e i 115 minuti non aiutano - The Descendants consegna un autore in crescita, che non diverte più come prima - Sideways - ma ha messo la testa al posto giusto, ovvero nel qui e ora delle nostre vite, che divertenti non sempre sono.
Non che manchino humour e battute azzeccate, ma non conta: è vivere e morire alle Hawaii, sperabilmente crescendo in mezzo. Matt come le due figlie è nell'età della crescita, ma Matt già tocca con mano la polvere a cui ritornerà: non gli resta che imbarcarsi nella missione maturità. E lo stesso Payne, costi quel che costi. Perfino, un film non totalmente riuscito, preda della malinconia - regia solida ma paratattica, ritmo lagunare e secche narrative - più di quanto avrebbe dovuto.