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Paradise: Love
Il Paradiso non abita qui. In Africa e nella piatta Austria. Il titolo della trilogia di Ulrich Seidl è infatti molto più di una provocazione: è la declinazione personale di fede, speranza e carità. A Cannes, in concorso, il primo dei tre, Love: Teresa (bravissima Margarete Tiesel), cinquant'anni e problemi di peso, di mestiere assistente agli handicappati, si concede una vacanza. Molla la figlia a casa di un'amica (una bigotta tremenda) e parte per un'avventura esotica. Arriva sulle spiagge bianche del Kenya, sole, acqua cristallina: un sogno. Pieno di donne come lei, le Sugar Mamas le chiamano laggiù: europee a cui i Beach Boy offrono illusioni d'amore (sesso) in cambio di soldi. I turisti sono segregati su una piccola superficie di sabbia, dagli abitanti li divide un muro di vigilantes, il mare è una barriera corallina. Teresa frequenta altre villeggianti che la introducono alla vita del luogo: i ragazzi sono gentili e in qualche caso non da buttar via. Ci casca in pieno, cerca amore e un po' di attenzioni. Passa da un nero all'altro: finge di credere alle bugie, il denaro serve per la famiglia, per la sorella in ospedale, per il padre senza lavoro. Teresa paga, e si inoltra nella miseria delle baracche in cui vive la gente di lì. Nessuno sa dei suoi ragazzi spariti nel nulla, cade sempre più in basso tra lacrime e telefonate senza risposta alla figlia (nel terzo capitolo scopriamo perché: la bambina è in una specie di campo di concentramento per obesi). Seidl, che ha passato 4 anni in quel 'paradiso', di cui due spesi a fare ricerche, sa di che cosa parla e tallona la sua protagonista senza risparmiare nulla a lei e a noi. Degrado, umiliazioni, disgusto e pietá. Le pieghe massicce del corpo di Teresa e le ossa sporgenti del giovane offerto dalle sue amiche come regalo di compleanno. La posizione è netta e raccontata con implacabile efficacia secondo il metodo Seidl: girare un film di finzione come fosse un documentario.