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Kasia Smutniak e Greta Santi in Pantafa (credits: Christian Nosel)
Malanotte esiste, ma anche no. È il nome primitivo, e avvolto nella leggenda, di un borgo perso tra le montagne del teatino, oggi completamente abbandonato per motivi di agibilità. In realtà quel posto incastonato nel cuore dell’Abruzzo è solo un’evocazione, benché il titolo del film, in concorso nella sezione Crazies al 40° Torino Film Festival, riecheggi la pantafica, figura spettrale del folklore abruzzese e marchigiano, personificazione dell’incubo che spesso assume le sembianze di una vecchia strega o di un grosso gatto nero.
Eppure, nonostante questo fortissimo legame territoriale, Pantafa è girato nel Lazio, tra Guidonia Montecelio e la Valle dell’Aniene (Riofreddo, Roviano, Subiaco, Arsoli, Affile, Arcinazzo Romano, Vallinfreda, Colle di Tora) e riprende una tradizione etnografia che afferisce all’area del centro Italia più che a un luogo in particolare. È lunga e fertile, la liaison italiana tra il racconto nero (thriller o horror che sia) e il repertorio folkloristico, da Il demonio di Brunello Rondi a Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci fino a casi più recenti come Il legame di Domenico De Feudis.
E Pantafa, ispirato a una leggenda popolare, rappresenta il tentativo di rigenerare quella relazione, spingendo il cinema nazionale in territori più impervi, soprattutto per la nostra inossidabile propensione al realismo. Se c’è un merito nel secondo film diretto da Emanuele Scaringi (regista di casa alla Fandango, che produce, già dietro La profezia dell’armadillo e Bangla – La serie) è proprio quello di abbracciare una dimensione misterica e tenebrosa che per forza di cose si allontana dal reale per affondare le sue radici nel fantasmatico.
Protagonista della storia è Marta (Kasia Smutniak), mamma di Nina, una bambina che da qualche tempo soffre di paralisi ipnagogiche, disturbo del sonno che può portare ad avere stati allucinatori. Le due si trasferiscono in un piccolo paese di montagna, Malanotte, perché Marta è convinta che l’aria sia migliore rispetto a quella cittadina. Peccato che l’accoglienza non sia delle migliori: gli abitanti sembrano respingenti, bambini non ce ne sono e mamma e figlia sono costrette ad affidarsi a Orsa, una signora che tiene Nina mentre Marta lavora. E così quella che doveva essere una trasferta rigenerante si rivela un incubo.
Operazione interessante di decentrare il discorso narrativo in zone meno frequentate dalla nostra produzione (l’horror rurale, la storia di fantasmi, il centro Italia, la prevalenza del femminile), Pantafa soffre di qualche timidezza di troppo nel cercare una via autonoma rispetto alle forme più consuete del dramma urbano. All’attivo la performance volutamente insinuante di Betti Pedrazzi, teatrante di lungo corso che sa interpretare il mefistofelico annidato nel reale, i costumi di Gabriella Pescucci che recuperano suggestioni folk, le musiche inquietanti di Ratchev & Carratello.