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Presentato nella sezione Generation del Festival di Berlino, Palazzo di Giustizia segna l’esordio nel lungometraggio di finzione di Chiara Bellosi. Come in tutte le produzioni di Carlo Cresto-Dina, anche qui si percepiscono quelle caratteristiche che rendono del tutto singolari i film curati dalla sua Tempesta.
Lo scrupoloso Cresto-Dina, lo sappiamo, è un produttore diverso dagli altri. L’abbiamo già notato nei lavori di Alice Rohrwacher, Leonardo Di Costanzo, Caterina Carone e Irene Dionisio, tutti cresciuti sotto la sua ala. Instaura con gli autori un dialogo stimolante, ponendosi sempre l’obiettivo di proporre un cinema italiano capace di rivolgersi anche fuori dai confini. Un cinema autonomo, né asfittico né provinciale.
In poco più di ottanta minuti che condensano l’arco di un’intera giornata, Palazzo di Giustizia si chiude tra le mura di tribunale per seguire l’ultima udienza di un processo. Sul banco degli imputati, un giovane rapinatore dietro le sbarre e un benzinaio che, dopo il furto, ha reagito nel peggiore dei modi, sparando e uccidendo il complice del ladro.
Quali sono i confini della legittima difesa? Quanto siamo disposti a comprendere un atto tanto fatale? Tema più che mai contemporaneo, ciclicamente centrale nel dibattito politico. Eppure l’interesse di Bellosi non è principalmente legato alla dimensione civile della vicenda, quanto piuttosto a ciò che gira attorno al processo, a quel che resta fuori.
Mentre il processo si consuma seguendo i suoi rituali, una bambina, figlia della vittima, esplora il microcosmo del tribunale con l’incosciente desiderio di scoperta tipico dell’età infantile (Bianca Leonardi). E la figlia adolescente di uno degli imputati (Sarah Short), che abita con il padre all’imbocco dell’autostrada, troppo lontana dal mondo abitato, coglie l’occasione per fare esperienza delle cose della vita. Entra in contatto con un ragazzo gentile che sta lavorando proprio vicino a lei (Andrea Lattanzi, visto in Manuel). Magari qualcosa accadrà, chissà.
Destinate a farsi forza l’un l’altra per arrivare alle porte della notte, le due figlie inevitabilmente subiscono più di tutti i contraccolpi del dolore, anche senza rendersene del tutto conto. Ma il loro ruolo è quello di trasmettere il soffio di speranza necessario per immaginare una vita diversa se non migliore. E dentro l’aula cosa succede? Il benzinaio, che si è fatto giustizia da solo, fa i conti con la propria coscienza (Nicola Rignanese senza baffi, mai visto così dolente). Il ladro, un po’ meno (Giovanni Anzaldo).
Il momento più spiazzante è l’incontro al bagno tra la giovane moglie del ladro (Daphne Scoccia, già folgorante protagonista di Fiore) e il benzinaio (Nicola Rignanese senza baffi, mai visto così dolente). Un breve faccia a faccia silente e durissimo che mette in luce quanto il concetto di vittima sia più complesso delle semplificazioni veicolate dalla cronaca nera.
Bellosi misura il proprio sguardo umanista con il metro del cinema del reale. Osserva e partecipa, registra ciò che accade senza dare giudizi. E intercetta frammenti di autenticità (le pozzanghere, le mani sporche, i distributori) per restituire il senso di un dramma intimo e universale. Preziosi i contributi di Maurizio Calvesi (fotografia) e Christophe Giovannoni, Xavier Lavorel e Vito Martinelli (suono).