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Palazzina Laf - Foto Maurizio Greco
“Quando sono a lavoro mi sento guardato a vista. Se non ci sono i vigilanti, ci sono quelli che noi chiamiamo fiduciari della proprietà. Osservano e riferiscono”. Questa è una delle tante testimonianze degli operai Ilva raccolte e contenute negli atti giudiziari del processo "Ambiente svenduto", riportata in un'inchiesta del 2015 della rivista dinamopress.it.
Ancor prima dei processi sul disastro ambientale causato dall’impianto siderurgico di Taranto, alcuni vertici dell’azienda (tra questi anche il presidente Emilio Riva) vennero condannati in primo grado nel dicembre del 2001 per “tentativo di violenza privata”.
Nel 1997, infatti, dodici dipendenti (che poi diventarono 70) vennero forzatamente trasferiti in una palazzina inutilizzata dell’impianto, costretti a trascorrere la propria giornata senza fare nulla, senza lavorare. Erano in gran parte i lavoratori più sindacalizzati e, soprattutto, non avevano accettato la proposta aziendale di lavorare con mansioni e qualifiche inferiori a quelle precedenti.
Tra i casi più celebri e citati relativamente al mobbing, la storia della Palazzina Laf viene ora raccontata dall’omonimo film che segna l’esordio alla regia di Michele Riondino, attore – adesso anche regista – tarantino che ci riporta a quel periodo, il 1997 appunto, per dirigere e interpretare un’opera di forte impegno civile, dai connotati vagamente attigui al cinema che fu di Elio Petri, perennemente in bilico tra il dramma, il surreale e il grottesco.
Che è poi la commistione di tonalità più idonea per tentare di raccontare una vicenda appunto tanto drammatica quanto surreale: Riondino interpreta Caterino Lamanna, uomo semplice e rude, uno dei tanti operai che lavora nel complesso industriale dell’Ilva.
Quando un dirigente senza scrupoli, Giancarlo Basile (Elio Germano), decide di utilizzarlo come spia per individuare i lavoratori di cui sarebbe meglio liberarsi, Caterino comincia a pedinare i colleghi, a partecipare agli scioperi solo alla ricerca di motivazioni per denunciarli.
Con uno stratagemma, poi, riesce ad essere collocato anche lui alla Palazzina Laf: Caterino non ne comprende il degrado (“farsi pagare per non fare nulla” è tutto sommato una prospettiva allettante…), ma lì dentro vengono mandati alcuni dipendenti che non accettano il demansionamento (ingegneri, informatici a cui viene proposto di lavorare come operai) e che, una volta lì dentro, non hanno più alcuna mansione. Se non quella di cercare di far passare il tempo il più velocemente possibile.
Riondino mantiene un buon controllo sull’intero sviluppo della narrazione, si affida a comprimari di livello (da Vanessa Scalera a Paolo Pierobon, da Domenico Fortunato a Gianni D’Addario), chiede a Elio Germano di calarsi negli abiti di questo ominicchio (in un paio di circostanze forse un po’ troppo sopra le righe) che attraverso il potere corrompe per farsi bello agli occhi dei vertici dell’azienda e, a sua volta, il neoregista impersona uno di quei “fiduciari della proprietà” a cui si faceva riferimento sopra: un omuncolo della stessa specie, a ben vedere, convinto di poter trarre benefici personali in qualità di delatore ai danni dei suoi “simili”.
E la cosa interessante è che a differenza di altri film o racconti simili, dove il personaggio “negativo”, l’infiltrato, alla fine muta il suo status agli occhi dello spettatore, “migliora”, qui Riondino non garantisce nessun tipo di risarcimento morale al suo personaggio, anzi.
Un affresco degno di nota, dunque, ben supportato anche dalle musiche di Teho Teardo e arricchito dalla bella canzone di Diodato, La mia terra, sui titoli di coda.
In Grand Public alla XVIII Festa di Roma, dal 30 novembre in sala distribuito da Bim.