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Paddington in Perù
Tutti amano Paddington. Perché è gentile, educato, pasticcione, privo di malizia. E perché le sue storie assomigliano a una coccola, una carezza, un abbraccio. Ma, al terzo episodio cinematografico in dieci anni, svela un altro motivo, forse più nascosto ma comunque evocativo, che permette il franchise di intercettare un pubblico così vasto e composito.
L’orso Paddington è stato creato da Michael Bond alla fine degli anni Cinquanta, riflettendo le esperienze dei bambini che, a bordo di treni in partenza dal cuore dell’Inghilterra, furono messi in salvo durante la Seconda guerra mondiale, in fuga verso quella Londra che era ritenuta più al riparo dai bombardamenti. Non solo: l’arrivo di Paddington dal profondo Perù è una felice allegoria della migrazione, con il “diverso” che viene accolto da una famiglia borghese e da una società cortese e disponibile, in un clima che stilizza in modo molto efficace – soprattutto agli occhi dei più piccoli – un clima di armonia interraziale, scambio culturale e connessione emotiva.
Con Paddington in Perù, insomma, il portato allegorico si fa evidente: quando l’orsetto scopre che l’adorata zia Lucy, l’unica parente rimasta in patria, è scomparsa, lui e la famiglia Brown si spingono verso le terre selvagge del Perù per cercarla. A partire dalla casa di riposo per orsi, guidata da una suora canterina, si mettono sulle tracce della zia, avventurandosi nelle foreste pluviali dell’Amazzonia: sarà l’occasione per riscoprire il valore dell’unione familiare e scoprire le vere origini di Paddington.
![Studiocanal](https://www.cinematografo.it/image-service/version/c:NzgyYjk1MDQtMjVlYS00:N2RmZmJkYjEtZDkwNi00/paddington-in-peru.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
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È quasi un racconto di formazione, Paddington in Perù, con l’eroe che deve affrontare il viaggio alla ricerca delle radici per capire davvero se il suo posto nel mondo è la patria d’origine o quella d’accoglienza. Più che un conflitto (che in un film del genere resta sempre edulcorato, anzi addolcito) è un tema che si riverbera in quel senso della famiglia che, non a caso, è l’asse portante dell’intera storia.
Non c’è solo il desiderio di ritrovare la zia scomparsa, ultimo (forse) legame con la madrepatria (commovente il “trucco” dell’eco), ma anche la gratitudine reciproca tra il “figlio adottivo” e la comunità d’accoglienza (i Brown, in crisi perché la primogenita sta abbandonando il nido e il secondogenito vive recluso in camera). Ma c’è anche un rapporto tormentato con gli antenati, con Antonio Banderas che gigioneggia nel ruolo di un cercatore d’oro appesantito dall’eredità e così vittima dell’ossessione da dimenticare i bisogni della figlia.
Diretto con gusto da Dougal Wilson, con la voce di Francesco Mandelli (in originale è Ben Whishaw) e interpretato dal vecchio cast (Hugh Bonneville, Julie Walters, Madeleine Harris, Samuel Joslin) con l’aggiunta di Emily Mortimer al posto di Sally Hawkins e un ritorno da non anticipare, in Paddington in Perù c’è anche una spassosa Olivia Colman che diventa l’emblema di un franchise autorevole e mai serioso, garantendo il coefficiente di follia grazie a un’espressività assolutamente irresistibile e surreali schitarrate che parodiano Tutti insieme appassionatamente e Suor Sorriso.