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Oppenheimer © Universal Studios
Il cinema è una questione di sguardo. Si decide che cosa mostrare, che cosa nascondere. Si sposa un punto di vista, si gioca con gli spazi. A scuola la chiamano prossemica, sul set è qualcosa di non immediato: dove mettere la macchina da presa, rispetto alla persona e a ciò che la circonda. In Oppenheimer la scelta di Christopher Nolan è dove mettere la bomba. Non la si può far cavalcare come in Il dottor Stranamore. Qui deve essere una presenza costante. Prima agognata, temuta. È un’ossessione che diventa concreta. Poi una finta alleata, comunque incontrollabile.
“Stiamo dicendo che c’è una possibilità che spingendo quel pulsante distruggiamo il mondo?”, domanda un preoccupato Matt Damon a Cillian Murphy. Ed è qui la chiave: la fine, l’apocalisse. Potrebbe essere una riflessione sul cinema, sulla crisi che sta attraversando. Ma Nolan non vuole farci vedere i risvolti che tutti conoscono tramite i libri di storia. La decisione è di soffermarsi sul protagonista, sul suo Julius Robert Oppenheimer. Per questo non ci sono immagini di Hiroshima e Nagasaki.
Oppenheimer racconta come si è arrivati alla tragedia, si sofferma sulle tinte più cupe. È come se fosse un war movie. Siamo ancora in Dunkirk, la sensazione di morte è costante. Il nemico, l’arruolamento, il campo costruito nel deserto, la battaglia che si consuma nei laboratori, correndo contro il tempo. Ed è qui che l’animo umano si spezza. Tornano i temi cardine della poetica di Nolan: le ferite che non si rimarginano, la passione che si fa odio. E la magia che si trasforma in massacro, come in The Prestige.
Il sogno si infrange contro la realtà, in un’esperienza cinematografica violenta, avvolgente. Ancora una volta la solitudine, l’essere comune che si schianta contro l’impresa. Non serve decollare come in Interstellar, qui il destino del pianeta è nel deserto. Sullo sfondo si sente l’eco dell’omonimo libro scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin. Ma Nolan ribalta, rimescola. Porta i suoi personaggi allo stremo, li rende emblema di una nazione prostrata. Chi è colpevole? Chi è innocente? Non esistono risposte. Il dilemma è ben oltre l’umanità, e si riflette anche sul regista. Che però non si sottrae. Costruisce la sua parabola: abbandono, azione, consapevolezza, successo (ma lo si può definire così?), e colpa.
“O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”, sosteneva Christian Bale nel finale di Il cavaliere oscuro. È così che l’Uomo Pipistrello sceglieva di sacrificarsi per essere quello di cui la gente aveva bisogno. E chi è allora Oppenheimer per Nolan? Una mente eccelsa, un’anima lacerata, uno spirito errante che non sa dove sta andando.
Ma non va in scena la banalità del male. Oppenheimer è un travolgente monito, un devastante percorso di rinascita. È la chiusura di un cerchio iniziato nel 1998 con Following, quando la ricerca dell’ispirazione nasceva dal pedinare sconosciuti per le strade. Qui Oppenheimer è come se fosse braccato, senza respiro. In tre ore serrate, dirompenti, dove senza sosta si aspetta l’inevitabile.
La follia si mescola con la razionalità della scienza. La creatività, figlia del cuore, trova la sua nemesi nell’ingegno. La detonazione è costante nelle visioni del protagonista, nel montaggio indiavolato, incendiario, che dà vita a una tempesta senza requie. È un viaggio visionario verso l’Armageddon, estremamente immersivo, da cui nessuno può sentirsi assolto.