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Prima della banalità del male c’era, ovviamente, il male. E prima del fondamentale saggio di Hannah Arendt sul processo ad Eichmann a Gerusalemme c’era, appunto, Adolf Eichmann, l’“architetto della soluzione finale”. Operation Finale racconta il prequel in un certo senso di quel processo, mettendo in scena l’operazione di cattura dell’aguzzino nazista.
Il film è ambientato in Argentina, dove Eichmann si rifugiò cambiando nome e identità: qui una squadra dei servizi segreti israeliani capitanata da Peter Malkin scopre la vera identità dell’ex-SS e organizza il colpo per rapirlo e portarlo a Gerusalemme.
Diretto da Chris Weitz e scritto da Matthew Orton, Operation Finale è un dramma storico che punta al meccanismo di genere, come un film di truffa e di rapina, per poi fermarsi e concentrarsi in un dramma da camera che riporta a una dimensione più intima.
Uscito in America a fine agosto e distribuito da Netflix nel mondo, Operation Finale è puro cinema medio nello stile, nella forma, nella confezione, tutto centrato sul racconto di una storia vera, sulla spettacolarizzazione a fine “didattico” delle sue fonti (su tutte il memoir dello stesso Malkin, Eichmann in My Hands) eppure proprio dentro questa medietà Weitz trova la chiave per aprire delle crepe in quella banalità che nasconde il male: i flashback dei personaggi, la sequenza del raduno nazista a Buenos Aires, le sfumature del personaggio dello stesso Eichmann sotto mentite spoglie (un perfetto Ben Kingsley).
In questo senso Operation Finale sembra quasi riflettere sulla narrazione come chiave di lettura o comprensione della Storia, come lo stesso Eichmann fa intendere nella sua passione per il racconto, e sulla capacità di un certo cinema hollywoodiano di produrre senso proprio attraverso il racconto e la costruzione di tensione (il finale in aeroporto che guarda ad Argo di Affleck): basterebbe guardare il modo in cui ritrae i nazisti argentini, la loro fierezza che suggerisce il futuro di quella nazione e il presente del nostro mondo.
Uno squarcio raggelante in un film in cui, come spesso nel cinema hollywoodiano, la sostanza si nutre di apparenza, di superficie, di racconti semplicemente “ben fatti”.