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One Day © 2022 Netflix, Inc.
One Day we had today. Today abbiamo la serie tv.
Quattordici micro-puntate (una mezzoretta scarsa l’una, pilota a parte) con cui Netflix titilla la più classica operazione nostalgia. La rodata strategia (sempre più) intermediale è tanto munifica quanto trasparente: ripescare, espandere (e non terminare) la ventennale, struggente liaison tra Em e Dex che ha inzuppato i fazzoletti di migliaia di devoti e devote del sottogenere amori difficili.
Correva il 2009. Il gong lo diede il romanzo di quel Nicholls (edito allora, riedito ora e ancora in Italia da Beat) che firmò poi la sceneggiatura del film cult diretto da Lone Scherfig nel 2011. Volti indimenticati di quell’amore-odio da grande schermo (e grandi incassi), non serve ricordarlo, furono la contegnosa Anne Hathway e lo spavaldo Jim Sturgess. Un quarto di secolo dopo il romanziere, astutamente, si ritaglia il ruolo di co-sceneggiatore (con Nicole Taylor) e co-produttore esecutivo delle serie britannica rilasciata in tutto il mondo alle soglie di San Valentino.
Anche così si spiega la fedeltà fino al calco della serie, senza (grossa) variatio a libro e film. Scommettendo sul lacrimoso noto, però, la regia tetrarchica (Manners, Snellin, Hardwick, Hewitt) riesce a sventagliare, per nella diverisità di toni, intensità drammatica, riproposizioni o ricalibrature di dialoghi, i quattordici episodi che ripercorrono l’incontro lungo una vita tra i due protagonisti. Su piccolo schermo i capitoli fanno da pendolo a un amore esclusivo fatto di vertigini emotive e voragini di classe, corsi e ricorsi, fremiti e batticuori, relazioni pretesto e progetti falliti, mentre in filigrana, a sostanziare il tono melò, scorrono tutti gli ammicchi alla cinefilia romantico-tragica che potete rimembrare (Basic Instinct, The Graduate, Via con vento, ma altri ancora sarebbero da almanaccare).
One Day, allora, o del paradosso ancora sbalordente di un amore subito rinnegato, anzi sublimato e confuso nell’ambigua complicità di un’amicizia che resiste al tempo, alle ruggini, agli scorni della maturità, eppure, alla lunga, inadeguata a camuffare l’odi et amo più tormentoso perché inconfessabile (e viceversa).
L’altalena emotiva su cui salgono Emma e Dexter è sempre, ancora, il fatidico 15 luglio 1988. Galeotta fu la festa di laurea all’Università di Edimburgo: i due si incontrano, si piacciono, sfiorano il sesso e si vanno ad aspettare da un capo all’altro dell’Europa con l’estate alle porte. Il giovin signore Dexter (Leo Woodall), occhi cerulei e impenitente ciuffo biondo (con un vago sentore liliale del Pitt che fu Dreamer per Bertolucci) spende il suo fascino caucasico nei letti già caldi d’amore, per poi ritrovarsi adulto a Londra presentatore tv assalito da ragazzine in estasi e linciato dalla stampa. La proletaria, indo-discendente Emma (Ambika Mod), invece, trascorre le vacanze lavorando. Ovvero deprimendo le sue ambizioni letterarie come drammaturga di una sgangherata compagnia teatrale itinerante. Ambizioni seppellite (o forse no...) prima dalla mancanza di soldi e poi dal ripiego londinese scelto in maturità di essere docente (e amante del preside) condannata a vivere in un infelice bilocale.
Em e Dex. Lei che pur col portafoglio sempre vuoto, con le lezioni, le recite e i consigli di classe, rincorre lui che, mentre la mamma muore, la riama ma sprofonda nella Londra alla fine del Millennio tra gin, cocaina, bagordi, lustrini e menzogne della ribalta.
Per brevità e intelligenza di chi legge, non snoccioleremo il proseguo ventennale dei batticuori: i padri nobili convocati in apertura sono sufficientemente evocativi. Annoteremo solo che il progetto Netflix, pur ammiccando con spudoratezza senza innovare, pur ripresentandoci tutti gli snodi emotivo – visivi del film, affonda il coltello nella carne delle ingiustizie sociali. La durata dilatata, i dialoghi ora affettati ora vibranti (a seconda, si capisce, della regia), l’espressività ad ampio raggio di Ambika Mod, il montaggio alternato che separa il ricco borghese dalla workin’ poor certo aiutano e favoriscono lo scandaglio come l’inclinazione proletaria.
Eppure, nella strapotenza sentimentale di metodo, la serie mostra di voler polemizzare di sottecchi con una società squilibrata che sfrutta, umilia e non gratifica la sua fascia più debole: giovani (spesso immigrati, anche di seconda generazione) costretti ad annaspare tra concorsi, pubblicazioni, stipendi da fame, gattabuie e supplenze a ore. One Day oggi o della fatica umiliante del precariato, o della desolazione morale di una ricchezza che annebbia e non pacifica.
One Day oggi, che fa commedia agrodolce sulla persistenza inesorabile del sentimento contro l’evidenza della ragione e l’inadeguatezza di classe certo, ma anche soprattutto fa polemica a puntate e a venature etniche, su come questi dislivelli di censo, nascita, classe, disponibilità economica spezzino la pienezza dei sentimenti. Quindi la pienezza della vita.