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Il rischio di rendere il movimento neo-femminista e contro le molestie sessuali un’egida per ogni manifestazione cinematografica, a partire dalle più in vista come Oscar e Festival di Cannes, è che la donna diventi sempre e solo una vittima e che si limiti a questo e questo solo la questione femminile.
Zsofia Szilagyi invece con il suo lungometraggio d’esordio, One Day (presentato alla Semaine de la critique) ribadisce che le questioni centrali per le donne risiedono nella loro vita quotidiana.
Assieme a Réka Mán-Várhegyi, Szilagyi scrive un film in cui la protagonista è madre di tre figli, sempre di corsa tra il lavoro, le esigenze dei bambini e della famiglia e il sospetto che il marito la tradisca.
Un tour de force fisico prima che emotivo in cui il rischio di rottura è sempre presente, come la voglia di continuare e ricominciare: un dramma minimale che pare scritto e girato in unità di tempo e che concentra le questioni di una vita in 90’.
E lo fa con semplicità e onestà, senza sensazionalismi, raccontando una vita comune e mostrando la difficoltà a volte titanica di arrivare a fine giornata: Zsilagyi si approccia alla sua protagonista (notevole prova di Zsófia Szamosi) e ai piccolo co-protagonisti cercando sempre la distanza giusta, senza soffocarli con primissimi piani a mano né metterli in quadri freddamente geometrici, ma cercando l’equilibrio tra la vicinanza emotiva e il distacco pudico, lavorando sui mezzi toni, comunicando le emozioni e le sensazioni del personaggio con naturalezza.
One Day, come dice anche il titolo, è semplicemente cosa succede in un giorno qualunque di una donna: e quello che succede è il peso di un mondo su due sole spalle, spalle che sono forti e fragili, che subiscono piccolissime crudeltà quotidiane di cui quasi mai ci si accorge.
Ecco perché tra numeri anti-molestie che non funzionano e quote rosa usate come medaglie, il cinema e un festival hanno bisogno di un film semplice ma sottilmente tagliente come quello di Szilagyi.