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Ha Dong-soo è un ragazzo solitario e introverso. Una sera, mentre cammina, viene rapito da dei trafficanti di organi che lo affidano a un dottore di fiducia per praticare gli espianti. Ma c’è un problema: Ha Dong-soo è un “connect”, l’esponente di una nuova evoluzione del genere umano (naturale o genetica? Ancora non è dato capire…). Il suo corpo, se smembrato, è in grado di ricomporsi, e le sue ferite si rigenerano, rendendolo di fatto immortale.
Ha Dong-soo scappa dal laboratorio: nella concitazione della fuga lascia uno dei suoi occhi, che l’ineffabile dottore trapianterà al ricco Oh Jin-seop, sociopatico serial killer notturno con inattese vocazioni artistiche. Le vittime vengono da lui mummificate e rese simili a statue, poi esposte a sorpresa nel centro di Seoul.
Con sua grande meraviglia, Ha Dong-soo scopre di poter vedere le azioni dell’assassino, tramite l’occhio impiantato a quest’ultimo.
Che meraviglia, a ventiquattro anni di distanza da Audition (tornato in sala restaurato pochi mesi fa), ritrovare intatto il genio deviato di Takashi Miike. E che meraviglia maggiore trovarlo in TV, anche se non è la sua prima incursione su piccolo schermo: il prolifico regista giapponese (oltre 100 film all’attivo dal 1995) è ben noto per miniserie ad alto tasso di scorrettezza come MPD Psycho e Tennen Shôjo Man. Ma erano altri tempi, altre distribuzioni, prodotti destinati a restare inevitabilmente di nicchia nel mercato occidentale.
Un po’ quello che ci si aspetterebbe adesso, con il boom delle serie TV che ha portato all’oligopolio streaming di Netflix, Disney + e Prime Video, moloch generalisti per natura e definizione, capaci negli ultimi anni di proporre un intero catalogo di film e serie horror originali, addomesticate ad hoc per privarle di qualsiasi velleità anarchica e soddisfare la moderata ricerca di brividi a buon mercato. Ecco perché trovare su Disney + Connect (in Italia ridicolmente intitolato Occhio per occhio) era qualcosa di difficile da aspettarsi: obiettivamente, la filiale asiatica sta lavorando più che bene, potendo oltretutto contare sul boom dell’audiovisivo coreano, le cui produzioni hanno sempre più voce in capitolo e distribuzione internazionale. Miike, nonostante gli ovvi vincoli del medium, dà vita a un prodotto degno dei suoi tempi, e lo fa per la TV sudcoreana: o tempora, o mores.
Connect è al 100% una creatura di Takashi Miike, anticonformista non solo nella messa in scena, ma anche nella narrazione: che parte in medias res, ponendo al centro del racconto una persona come tante che non è affatto come tante. Ha Dong-soo è un diverso, un mostro consapevole di esserlo fin da bambino (quando è risorto da un incidente mortale, davanti ai suoi compagni di gioco che per primi lo hanno chiamato così). La verità risiede all’interno di se stessi, il corpo è la nostra unica certezza, come lo era il dolore (inflitto e autoinflitto) in Ichi the Killer. Siamo ancora lì, nelle acque cupe del body horror più classico: Ha Dong-soo, che ha ritenuto negata a se stesso la possibilità di essere un umano come gli altri, è chiamato dal racconto a prendere consapevolezza di ciò che è, la “nuova carne” teorizzata (e mostrata) in Videodrome da David Cronenberg. Ma il percorso di rinascita è costellato di tappe dolorose ma inevitabili: su tutte, l’assurda “connessione” stabilita con Oh-Jin-Seop, un campo visivo che diventa comune quando i due contendenti sentono in rete le note di una canzone, scritta e messa in rete da Ha Dong-soo, che sta diventando virale. La connessione diventa presto duello a distanza e confronto allo specchio: un unico punto di vista, due mostri diversi. L’emarginato e il colletto bianco, remissivo uno, spocchioso e superomistico l’altro, convinto della sua forza e del suo potere di dare la vita e la morte. Ma che la verità sia nascosta dentro di sè è un concetto a cui neanche Oh è estraneo: il suo è un corpo corrotto letteralmente dal male, un tumore allo stato terminale. Le sue azioni criminali sono dunque il tentativo di restare, sopravvivere all’oblio, e il mondo sembra incredibilmente dare ragione al suo perverso punto di vista, considerato l’orrore misto ad ammirazione che le sue “opere d’arte” suscitano nell’opinione pubblica, curiosa di conoscere la prossima “creazione” dell’assassino. È un mondo folle, ci dice Miike, quello in cui la connessione tecnologica tramite social network ci regala un’illusione di condivisione, di vicinanza, di immedesimazione, finendo per spersonalizzare, demoralizzare, disumanizzare ciò che stiamo vedendo coi nostri occhi. Perché è una visione a cui manca la percezione e la certezza del dolore, quello che Ha Dong-soo prova ogni volta che guarda con l’occhio dell’assassino, unico che si rende conto di quel che succede, unico che prova a fermare l’assassino, assieme all’amica/mentore Lee Irang (determinante nel processo di crescita del personaggio) e all’agente Choi, archetipo di una polizia immune al caos moderno perché storicamente ferma alla dicotomia classica tra bene e male, ma che Miike sbeffeggia con uno dei suoi sberleffi surreali: le epistassi che colpiscono l’agente ogni qual volta le sue indagini imboccano la direzione giusta (una genialata degna di Twin Peaks).
Bisogna essere indulgenti con alcune pecche narrative (difficile che a Seoul qualcuno possa mettere una statua/cadavere in pubblica piazza senza che nemmeno una telecamera lo inquadri), e sospendere l’incredulità nel nome del quadro d’insieme: Occhio per occhio/Connect è spiazzante, disturbante, ottimamente interpretata dai tre protagonisti (Jung Hae-in, Ko Kyungpyo e Kim Hye-jun) e si candida a essere una delle migliori serie dell’anno. Chissà se qualcuno se ne accorgerà, vista la scarsa reclamizzazione dalle nostre parti.