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O Fatalista
Ed il fato gioca, infine, uno scherzo amaro al fatalista. Parla, parla, parla. Infila una dietro l'altra parole in quantità, un fiume di parole. Ma non lo sentiamo, il fatalista, un uomo felice. Il suo, è un fato amaro. Quel che è scritto lassù, di bene e di male, accade quaggiù, ripete ad ogni piè sospinto il servo Tiago, autista fatalista, al suo padrone, mentre lo conduce senza un perché attraverso le strade di un illanguidito e surreale Portogallo. Ma con quel rifarsi continuamente alla teoria dell'illuminista Diderot (o nascondere, dietro quella teoria, sé stesso e le sue bravate, quasi fosse uno scudo morale), emulando senza interposte persone il settecentesco eroe e modello Jacques, non fa che appoggiare una specie di libertinaggio intellettuale del Terzo Millennio, che è il quid più saporoso della pellicola. Duecento anni fa, infatti, sarebbe servito per scardinare un sistema, anche di pensiero, oggi serve al cultore dei classici e regista portoghese João Botelho per innescare il racconto dei sorprendenti amori del fatalista. Questi amori, suoi e degli altri, si cristallizzano in piccole e medie narrazioni che inglobano altri personaggi piacevolmente configurati. Sono avventure del corpo e dello spirito che sconficcano le certezze delle classi sociali, destabilizzano prevedibili comportamenti umani, innescano vendette poco cristiane, rigurgitano di carnascialesche malignità oppure di carnali soddisfazioni. A Botelho non interessa una narrazione lineare, ma una configurazione letteraria del film, come se fossero diversi capitoli che si aprono e chiudono nella declamazione di Tiago, aedo moderno. Certo il film diventa anch'esso un piccolo gioiello riservato a quei pochi che preferiscono gli effetti speciali dello spirito a quelli del computer. Lo diventa, il film, davvero fatalmente.