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Daniel Kaluuya in Nope, written and directed by Jordan Peele
Dopo Scappa – Get Out (2017, Oscar per la sceneggiatura) e Noi – Us (2019), Jordan Peele, newyorkese, classe 1979, firma l’opera terza Nope, ancora nell’alveo del genere horror, accezione Great American UFO, un film horror sui dischi volanti.
Nelle premesse “un incubo pop oscuro tra fantascienza, mistero e social-thriller dove germogliano i semi della violenza, del rischio e dell’opportunismo, tutti elementi inseparabili dalla storia romantica del West americano… così come dallo stesso mondo dello spettacolo”, Nope è in sintesi il film non riuscito di un regista riuscito: è insieme troppe cose e, almeno nella risolutezza, poca cosa.
Daniel Kaluuya e Jordan Peele sul set di NOPE - © Universal Studios. All Rights Reserved
Gli difetta l’amalgama e, prima, un ubi consistam ineludibile e indefettibile: l’analisi della società dello spettacolo, che è il tema coi piedi piantati per terra, ha nella digressione-background, lo scimpanzé che impazzisce e massacra la famiglia della sit-com di cui è protagonista, l’apice, anziché nell’ufo organico al centro del film stesso, e che a tenere insieme i due capi, oltre all’ex attore superstite Ricky Park (Steven Jeung), siano i palloncini e i festoni invisi alle due creature, be’, è un po’ poco. Un tot estemporaneo, se non labile: la scimmia ha l’archetipo violento di Arancia meccanica, il “non” Ufo il retaggio di Incontri ravvicinati del terzo tipo, e chi può vincere, ovvero permanere sulla nostra retina?
Ambientato nella Santa Clarita Valley fuori Los Angeles, Nope ha per protagonisti i fratelli OJ (il feticcio di Peele Daniel Kaluuya, non imprevedibilmente bravo) ed Emerald Haywood (Keke Palmer), che hanno ereditato un ranch di cavalli a uso Hollywood e show vari e che nella finzione hanno per quadrisavolo il fantino, nero e misconosciuto, di Sallie Gardner at a Gallop, la celebre sequenza cronofotografica di Eadweard Muybridge del 1887: aiutati sul versante digitale dal geek Angel Torres (Brandon Perea) e su quello analogico dall’attempato direttore della fotografia Antlers Host (Michael Wincott), proveranno a filmare i fenomeni inspiegabili, paranormali e perfino raccapriccianti che accadono nella tenuta, over the rainbow.
Per carità, non mancano i pezzi di bravura di Peele, le belle trovate elevate a potenza dalle riprese in IMAX, non latitano lampi di intelligenza né squarci di verità, ma il rimpianto per cosa Nope avrebbe potuto – e dovuto – essere è superiore alla somma di queste chicche. Ché, poi, diciamolo accanto alla non peregrina trasfigurazione per altro genere (horror) del western, l’horror è esplicitamente derivativo, da Il mago di Oz a Poltergeist, e comunque il ritratto è sempre meno interessante dello sfondo, se non della cornice: che agli albori delle immagini in movimento, di cui il western sarebbe stato il genere fondativo per quelle americane, finisca nell’anonimato il fantino nero e funzionale, al prospetto del cowboy bianco e demiurgico che sarà, ecco, non c’è davvero bisogno di alzare gli occhi al cielo per trovare qualcosa di meglio.
E dunque? Peccato, e diciamo pure il peccatore, Jordan Peele, che scrive, produce e dirige con sospetto di solipsismo, troppo tra le nuvole per trovare un punto di caduta – si pensi anche alla (meta)critica al cinema e all’industria solo buttata lì, e all’anti-razzismo non portato a conseguenza – e un effettivo guadagno di senso. Insomma, no(pe), non è riuscito.