All’origine di Non dirmi che hai paura (in concorso alla 22a edizione di Alice nella Città, già Menzione Speciale della Giuria al Tribeca Film Festival 2024) c’è il romanzo di Giuseppe Catozzella, Premio Strega Giovani nel 2014 che ha venduto mezzo milione di copie in Italia e più di 800.000 nel mondo. Ma dietro il libro, che era scritto in prima persona proprio con l’obiettivo di restituire l’esperienza della protagonista e il suo mondo interiore, c’è la storia di Samia, nata nella Mogadiscio segnata dalla guerra civile e che sin da piccola si accorge di correre più veloce di tutti.

Qui entra in gioco il cinema: nell’adattamento di Yasemin Şamdereli (che dirige in collaborazione con Deka Mohamed Osman) la vicenda si arricchisce di un personaggio, Ali, l’amico che l’allena e la sostiene. È un elemento, certo il più rilevante, che testimonia quanto realtà e finzione (prima narrativa e poi cinematografica) non siano scompartimenti stagni ma contenitori fluidi: la sostanza di una storia non passa solo attraverso una restituzione lineare, che non di rado rischia di scoprirsi scolastica.

Non dirmi che hai paura racconta la vita di Samia, che nel 2008 rappresenta la Somalia ai Giochi Olimpici di Pechino, corre senza velo, arriva ultima nella gara dei 200 metri femminili ma viene vista dal mondo che fa il tifo per lei. E ci dice quanto questa esposizione mediatica, sebbene gloriosa, non le abbia permesso di vivere serenamente: tornata in Somalia, Samia subisce le rappresaglie degli estremisti al potere perché si è fatta vedere al mondo senza velo, e allora decide di migrare verso l’Europa.

C’è qualcosa di Io capitano nello sguardo delle registe, ma laddove in Garrone il “look” era un asse per sottolineare la dimensione della favola tipica del suo autore e a consegnare il viaggio verso una speranza di cambiamento, qui la fotografia di Florian Berutti appare piuttosto una scelta di superficie, forse rivolta a una fruizione il più possibile larga anche nell’ottica del pubblico adolescenziale.

Una concessione estetica che rischia di edulcorare un film altrimenti durissimo, che sin dalle immagini di repertorio dell’incipit ci indica il destino tragico di una ragazza che viene prima ammirata dal mondo fuori, poi imprigionata dai suoi connazionali (quindi inibita alla vista altrui), infine sommersa e dimenticata da quell’occidente che l’aveva vista sfidare la sua nazione tormentata.

Preciso nell’aderire al dolore della protagonista e nel darci contezza della diaspora somala, Non dirmi che hai paura è dignitoso e umanista, integro e giusto. Certo, qualcosa sul colonialismo italiano in Somalia, almeno nei cartelli con gli spiegoni...