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Non credo in niente
La scintilla è Bauman, l’orizzonte sta nel “mondo intorno a noi tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati” e nelle “vite frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro”. Non credo in niente, titolo che è monito più che promessa, parte da qui, dichiarato subito una tensione intellettuale che attraversa tutta l’opera prima di Alessandro Marzullo (presentato in anteprima alla 59a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro). Paratesto che un po’ incaglia questo film notturno e irrequieto, qua carnale e là spettrale, nell’esigenza – o nel timore – di dover spiegare più di quanto lasci far vedere, quasi prendendo alla lettera il suo titolo: non credo in niente e quindi nemmeno nelle immagini.
Eppure i fatti – cioè proprio le immagini – dimostrano l’esatto contrario: dentro il film ce n’è un altro in cui Marzullo rinuncia alle sottolineature, alle ridondanze, alle parafrasi e si (anzi, ci) abbandona a un film che è anzitutto un flusso, di coscienza e incoscienza, e un viaggio al termine di qualcosa che, tutto sommato, ci interessa fino a un certo punto. È una Roma non periferica (le strade di Prati e del Tuscolano, le saracinesche abbassate nei mercati rionali, i portici di piazza Vittorio, la stazione Tiburtina), degradata per consuetudine, “grande bruttezza” per sintesi: Roma sta là, cinica e puzzolente, comunque compiaciuta di un pigro sguardo filosofico espresso dai suoi abitanti più popolari, in primis un paninaro così fuori dal tempo da dominarlo o farsi dominare, che nel suo sentenziare sornione sembra congiungere tradizione e modernità.
Immaginandolo come un epigono del Destino di Prévert, Non credo in niente è un revival acido di Mentre la città dorme con i filtri di Wong Kar-wai, nume tutelare esplicito quanto Bauman, un viaggio nelle tenebre della “giungla di Roma” (parafrasando il titolo originale di Hong Kong Express). Girato in dodici notti con un budget limitatissimo, unisce due cortometraggi realizzati nell’arco di otto mesi e intreccia le vite di aspiranti artisti che cercano di uscire dal sottobosco: una hostess dalle velleità artistiche, un attore che si rifugia nel sesso occasionale, due musicisti che lavorano in nero in un ristorante.
Ha trent’anni, Marzullo, e si sente, perché il suo è un film sintonizzato sul battito del cuore di una generazione vocata alla nostalgia di cose mai vissute, l’impotenza di fronte al destino, la paura di chiedere a se stessi meno di quanto ci chiedono gli altri, la presunzione come antidoto alla mediocrità. C’è il nichilismo di Rilke, c’è il vino scadente e c’è il ricordo struggente di quel ballo romantico su una scalinata che mai più sarà: è il cugino indie di Enea di Pietro Castellitto, dell’audacia formale di Alan Parroni (Una sterminata domenica) e Simone Bozzelli (Patagonia), tutti registi della stessa generazione, ma anche un nipotino del cinema off romano degli anni Ottanta e Novanta.
Magari Marzullo spiega troppo (uno scambio di battute piuttosto efficace come “Secondo te perché ci innamoriamo?” – “Perché prendiamo le cose sbagliate” viene interrotto da un metariflessivo “Bravo, devi scriverla”), magari la vertigine resta un progetto nonostante il movimento di una regia che sa incanalare la liquidità di Bauman, ma con tutti i suoi limiti è un film che ribolle, inquieto e scombussolato, e tra l’altro ben interpretato (non è scontato: Demetra Bellina, Giuseppe Cristiano, Renata Malinconico, Mario Russo più Lorenzo Lazzarini, Gabriel Montesi, Antonio Orlando e Jun Ichikawa).