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Il silenzio: questo potrebbe essere il sottotitolo di Nome di donna. Tutti sanno, ma nessuno parla. Chi sceglie di scoprire la verità viene emarginato, da un giorno all’altro nessuno gli rivolge più il saluto. Le colpe devono essere nascoste, gli uomini potenti possono permettersi tutto, mentre chi non riveste un ruolo importante nella società deve subire, tenendo la bocca chiusa. Regna la stessa omertà de I cento passi, della lotta di Peppino Impastato nella Sicilia degli anni Settanta.
La residenza per anziani in mezzo alla natura può sembrare un luogo idilliaco. Dista solo un’ora di macchina da Milano, è immersa nella campagna lombarda, e offre tutti gli agi che un uomo facoltoso potrebbe desiderare. Nina arriva da un anno difficile: ha una bambina da crescere, è disoccupata e deve badare alla piccola. Il padre le ha abbandonate entrambe.
La sua unica consolazione è il fidanzato architetto che le fa visita quasi tutte le sere. Il lavoro di Nina sarebbe la restauratrice, ma la crisi ha fatto chiudere lo studio in cui si sentiva felice. Adesso è stata assunta in questa clinica da favola come inserviente. La prima parte del film è serena, distesa, fino a quando il capo convoca Nina nel suo ufficio, alla fine del turno. Un bicchiere di vino, qualche complimento e poi arrivano le molestie. Lei scappa, piange, ma poi trova la forza di denunciarlo.
Nell’epoca di #MeToo e di Weinstein, il film potrebbe essere attuale, necessario, però Marco Tullio Giordana non riesce a ritrovare lo sguardo de La meglio gioventù, un’opera imponente, fluida, che narrava l’evoluzione dell’Italia attraverso l’epopea di padri e figli, fratelli e amanti. Il suo modo di raccontare ci guidava nelle contraddizioni del Paese, nei drammi della società. Qui si appiattisce su un incedere didascalico, senza sorprese, che spesso sembra più adatto a un formato televisivo, nonostante gli ottimi propositi.
In Nome di donna manca la passione di Romanzo di una strage, cronaca degli anni di piombo, della bomba di Piazza Fontana e molto di più. L’obiettivo era mettere ordine in una materia complessa, anche se con qualche complottismo di troppo. Dal primo minuto, ciò che succede a Nina indigna, sensibilizza sul mobbing e su un mondo malato, che deve ancora scoprire la sua cura, ma poi il cinema lascia il posto a crociate superflue, all’immagine di una Chiesa che non assiste le sue pecore.
Da una parte un prete votato ai soldi, divorato dall’ambizione. Conosce tutto quello che succede all’interno della struttura, e chiude gli occhi. Dall’altra un parroco che, dopo molto tempo, decide di aiutare chi ha più bisogno. Sarà Nina, interpretata da Cristiana Capotondi, a risvegliare la sua coscienza, mentre da sola combatte con la foga di una guerriera che vale un esercito intero.