PHOTO
Carolina Sala in Noi anni luce
“Non esistono storie sbagliate, ma storie raccontate male”. Per quei cortocircuiti autoironici che solo il cinema sa regalare, la frase che l’esordiente Tiziano Russo infila nel diario del suo Edo, recensisce anche il film.
Dopo i videoclip musicali e la quinta stagione di Skam Italia, il regista salentino al primo lungometraggio scommette sull’usato sicuro: adolescenza, famiglie spaccate, scoperta di sé nella malattia. Insomma, gli ingredienti classici per infarcire un teen melodrama (d’ospedale) familiare e familista, in salsa road movie (da Roma a Santa Marinella, e ritorno).
Prodotto cucito su misura per i giovanissimi (Notorious lo porterà in sala dopo l’anteprima al Giffoni Film Festival) da un tandem di tutto rispetto alla sceneggiatura (Serena Tateo e Isabella Aguilar), strizza l’occhio a un preciso immaginario tv (Rai): dai Braccialetti Rossi, passando per Doc- Nelle tue mani, fino, ovviamente a Skam, piazzando davanti alla cinepresa una coppia d’adolescenti alle prese con la malattia terminale.
Il volto femminile qui è la candida Elsa (Carolina Sala). Diciassettenne amante del canottaggio che s’accascia in mezzo al Tevere durante una gara. Il ricovero porta con sé una diagnosi impietosa (leucemia, tempo di vita: pochi mesi) e l’incontro con Edo (Rocco Fasano) all’apparenza infermiere cantastorie per bimbi, ma malato terminale anche lui sotto mentite spoglie. Per la ragazza, intanto, urge un trapianto di midollo osseo: la madre è cardiopatica, e nessuno è in fila per lei.
Ecco allora la caccia al padre che l’abbandonò prima della nascita. Elsa fugge di casa, di notte con la macchina di Edo verso il litorale laziale per trovare il padre latitante (non solo affettivamente). Lì, dove la storia, già di per sé fragile, mostra le prime, insanabili crepe.
Dal soporifero (per montaggio e gestione tensiva) incipit sportivo, infatti, Noi anni luce scivola subito verso il dramma adolescenziale, su cui sboccia la storia d’amore. Ma sulla spiaggia, la preannunciatissima liaison ristagna, si fa aspettare, per di più la brachicardica, sconnessa caccia al padre perduto è inframezzata, senza equilibrio, dai pallori emotivi dei due. Russo, allora, prova a risvegliare ritmo e tensione con i sincopati videoclip musicali – il classico falò notturno a riva; tuffi e schizzi in acqua, e la scena di sesso tra Elsa ed Edo –, che però mal si intona alle compassate corde sentimentali della vicenda.
Film emozionale e dai tanti squilibri, si affida alla coppia amorosa (data la recitazione strascinata di Fasano, non una grande trovata) al di là della malattia, senza trovare mai un’espressività originale e innovativa. Sproporzione di ritmi, sovrabbondanza confusionaria di toni (drammatico, ironico, emozionale, comico), e lacrimosità dei dialoghi tra Edo e Elsa fanno il resto. Così la naturalezza e l’autenticità del gergo adolescenziale dei dialoghi, sono azzoppate dalle mille pause evocative (ancora Skam), inverosimili, poco naturali, appunto.
Insomma, a farla breve, regia e scrittura si rincorrono, si ammiccano, si seducono, senza incontrarsi (quasi) mai. E pensare che la sceneggiatura, pur nell’abbondanza di lacune e semplificazioni – Edo e Elsa innamorati senza conflitto; il papà latitante che scappa dall’ospedale; Edo guidatore senza patente, ma la linea narrativa evapora, come quella delle amiche di Elsa che non gareggiano per aspettarla, ma poi scompaiono dalla storia -, rimane comunque in piedi aggrappandosi mani e piedi alla struttura ciclica del film di partenza, e all’esplorazione psicologica delle giovani creature.
La regia, però, cinematograficamente acerba, cerca ovunque nell’ibridazione dei linguaggi – gli aironi sul Tevere, le dronate sul traffico di Corso Francia – una novità e una convinzione espressiva che si fa fatica a scovare.
Il risultato è un film giovanilista (in fondo tutti gli adulti sono inadeguati, inetti), tra attori anche intonati (Fabio Troiano, il padre nascosto) e altri che motteggiano il personaggio che interpretano (Adalgisa Manfrida, seriosa infemiera).
Data l’opera prima, però, si potrebbero perdonare tutte le pecche d’inesperienza, tranne l’insopportabile discriminazione di genere, sussurrata, certo, allusa a bassa voce, e chissà quanto consapevolmente, ma comunque evidente. In fondo, il film racconta senza accorgersene che il coraggio femminile non basta per risarcirsi il loro destino impietoso. Che Elsa e mamma Katia siano delle battagliere, che si sono costruite da sé pure, ma comunque in messianica attesa di un ragazzo o di padre risolutore, ovvero del maschio che diventa “maturo”, che si prenda le sue responsabilità, e restituisca serenità, unità, speranza verso l’avvenire.
Allora sì, siamo costretti dare ragione a Edo: non esistono storie sbagliate, solo storie raccontate male.