Eh, no. Se ti dai alla black-comedy che s’intigna, che sconfina perfino nell’horror, poi non puoi scadere, pardon, finire nel volemose bene e viva la famiglia. Scusate i toni, di certo lo spoiler, ma davvero questo Nightbitch, per la regia di Marielle Heller, il romanzo omonimo di Rachel Yoder e la prova attoriale di Amy Adams, confuta il titolo che s’è scelto: non è una stronza notturna, nemmeno una bestia notturna, ma una topina postprandiale.

Già la logline del libro non prometteva benissimo, “la storia in stile realismo magico di una mamma casalinga che a volte si trasforma in un cane”, ma sullo schermo vien voglia di ululare contro il cielo, allo scioglimento ideologico ancorché narrativo dell’artista e moglie>casalinga e madre>artista con famiglia – e più non dimandare.

Lei è, appunto, Amy Adams, che appesantita dalla maternità – papà (Scoot McNary)… è in viaggio d’affari, direbbe Kusturica – comincia a sperimentare cambiamenti fisici surreali, da macchie di pelo a capezzoli aggiuntivi e sensi intensificati: sarà stress, perimenopausa o incredibile ma vero si sta trasformando in un cane?

In biblioteca compulsa un testo sulle metamorfosi mitiche, altrove forgia la nuova identità, facendo giocare il figlio con i cani, mangiare dalla ciotola e dormire in una cuccia, il che le permette di recuperare il sonno perduto.

Anziché scomodare Zavattini e De Sica, meglio si farebbe a dir la verità: la Madre, come è paradigmaticamente intesa, abbaia ma non morde, e con lei il film.

C’è esibita irresolutezza, tanto nell’arco narrativo quanto nell’evoluzione poetica e politica, e sconforto in platea per la poca “ciccia”, malgrado le apparenze, dell’assunto letterario e quindi cinematografico: si può finire con “scusate, abbiamo scherzato”, davvero?

Battezzato a Toronto, passato da Torino, poi approdato in streaming Hulu negli Usa e da noi – il 24 gennaio – su Disney+, l’ipertoelettato Nightbitch assevera la bontà del colloquiale “menare il can per l’aia”: ora lo traducete a Amy Adams?