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NICKEL BOYS L. Kasimu Harris © 2024 Amazon Content Services LLC. All Rights Reserved.
Avrete presente Colson Whitehead, scrittore due volte premio Pulitzer. O The Underground Railroad, l’adattamento seriale perfezionato da Barry Jenkins nel 2021. Ecco, d’ora in poi, ammesso non abbiate già visto il suo doc Hale County This Morning, This Evening (2018), avrete presente RaMel Ross, che di Colson traspone il secondo Pulitzer dopo Railroad, Nickel Boys.
Apertura della XIX edizione di Alice nella Città, prossimamente su Prime Video, probabilmente nella cinquina della migliore regia agli Oscar e altrove nell’award season, fa dell’acclamato romanzo un punto di partenza inverato, trasgredito, tradito e sublimato dal cinema, affidando alla forma non già il “mero” racconto, bensì la storia stessa, ovvero il precipitato sensoriale e financo sentimentale.
Battezzato a Telluride e New York, esplora con i crismi della visionarietà e le stimmate del trauma un segmento – o una linea continua? – della Storia americana all’apogeo della decadenza delle leggi Jim Crow sulla segregazione razziale, istruendo le convergenze parallele tra Elwood Curtis (Ethan Herisse) e Jack Turner (Brandon Wilson), due ragazzi neri internati alla Nickel Academy, un famigerato istituto correzionale.
Spronato dalla nonna (Aunjaune Ellis-Taylor), Elwood perseguiva gli studi, ovvero l’affrancamento dalla propria subalternità sociale, a un istituto tecnico, allorché l’autostop gli è fatale; Turner s’è rassegnato, o forse no, alla reclusione. Entrambi, prima l’uno e poi l’altro, guardano e noi con loro: Ross affida al loro punto di vista la nostra visione, alla loro soggettiva la nostra comprensione della realtà – del carcere minorile e dell’universo tutto.
Sullo sfondo il nascente movimento per i diritti civili e l’epifania libertaria del reverendo Martin Luther King, brutalità imperante e residua umanità confliggono a Nickel, nome fittizio per quella Dozier School for Boys che storicamente ne seppellì un centinaio: il regista e la cosceneggiatrice Joslyn Barnes mettono nel fuoricampo e nel materiale d’archivio - c’è anche La parete di fango (1958) di Stanley Kramer con Tony Curtis e Sidney Poitier - straniante, mesmerizzante e spietato insieme la violenza e le conseguenze della stessa, liberando il racconto dalle consuetudini del sottogenere di riferimento. E lo fanno, come i fuoriclasse calcistici, a testa alta, passando il testimone scopico, dunque vedere/essere visto, da Elwood a Turner e sparigliando tra l’uomo che va sulla Luna, Apollo 8, e quello che homo homini lupus bracca il proprio simile con la pelle diversa come fosse a caccia.
Il tutto, così dolentemente metaforico, senza venir meno allo stile poderoso, ponderoso e vieppiù ponderato, che chiede tantissimo allo spettatore ma ancor più dà – i flashback diranno, o forse no, e comunque non irrefutabilmente che è stato, è e sarà di Elwood e Turner, con un significativo mutamento scopico, allorché dalla soggettiva si passa alla semisoggettiva (l’inquadratura, insomma, annovera la nuca del soggetto vedente).
È come se Figlio di Saul incontrasse Beasts of the Southern Wild, e molto ancora: Nickel Boys ha l’ardire di anteporre il visuale alla parola, il montaggio (Nicholas Monsour di NOPE) alla sceneggiatura – e per un adattamento non è molto, è tutto.
Può essere faticoso, ma ne vale la pena. Eccome.