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Nemico pubblico
Sono pochi i cineasti americani a credere ancora nelle storie bigger than life, e anche meno quelli capaci di raccontarle in modo credibile. Michael Mann è tra questi. Da Heat-La sfida a Collateral, la sua filmografia è un antidoto al minimalismo retorico di questi anni e una sfolgorante galleria di ritratti leggendari e passioni abnormi, destini beffardi e vite al di là del bene e del male. L'epica al contrario del sogno americano, di cui Nemico pubblico rappresenta la variante d'epoca (siamo negli anni '30), e un modello senza sbavature. Tratto dal libro Public Enemies di Bryan Burrough, il film affronta una delle figure chiave della mitologia yankee, quel John Dillinger che il cinema hollywoodiano ha più e più volte messo in scena senza mai sfiorare però la radicalità e l'introspezione profuse qui dal regista.
Dal materiale biografico di partenza, di cui conserva nomi, date e luoghi (la maggior parte delle location sono reali), Mann trasceglie i momenti significativi e gli snodi essenziali. L'evasione dal penitenziario di Stato dell'Indiana, la riunione con la gang, le rapine da una parte all'altra degli States, la sfida con Melvin Purvis (il mastino scelto da J. Edgar Hoover per guidare la speciale unità anti-crimine del neonato FBI), l'incontro con l'amata Billie Frechette, il tradimento di un'amica (la leggendaria "signora in rosso"), l'uccisione a pochi metri dal Biograph di Chicago dove aveva appena visto Manhattan Melodrama con Clark Gable: fissata nei suoi episodi fondamentali – procedimento tipico del regista, per cui la narrazione è una successione di circostanze decisive - la vicenda di Dillinger sullo schermo acquista un'indefinibile valenza mitica, come l'eco di una tragedia antica. Al romanticismo struggente del personaggio concorre l'interpretazione volutamente sottotono di Johnny Depp, malinconica maschera di un'epoca al tramonto, dove l'amicizia, la parola e l'etica contano ancora.
L'ammirazione che Mann prova per il suo eroe è speculare al consenso goduto da Dillinger durante la Grande Depressione. Il popolo vedeva in lui una sorta di Robin Hood deciso a togliere alle banche quello che le banche avevano sottratto al popolo (da qui il rimando al presente sbandierato dai critici americani, che il cineasta però sembra assecondare poco). E il film sottolinea questa sua galanteria a più riprese, quando mostra la generosità del rapinatore nei confronti degli ostaggi o la tenace opposizione ai metodi violenti di Baby Face Nelson. Ma il culmine della fascinazione lo si raggiunge grazie all'intreccio amoroso – come al solito il regista è abile ad approfondire ogni sottotesto possibile, immergendo lo spettatore in tutti i livelli del racconto – e al modo in cui Dillinger corteggia, conquista e resta fedele alla sua compagna, la brava e bella Marion Cotillard.
Grande affabulatore, Mann rende interessante ogni segmento narrativo, ogni faccia (perfetto il cast, ma Bale è un po' marmoreo) e dettaglio (dalla musica ai costumi), in un magistrale esercizio di equilibrio che tocca il suo vertice nell'amalgama di classicità e digitale, mito e realismo. Un digitale esaltato dalla fotografia crepuscolare di Dante Spinotti, riverbero opaco di un mondo dove gli uomini nuovi sono forse peggiori dei cattivi che hanno sconfitto.