Vide 'o mare quant'è bello / spira tantu sentimento. Ma non è Sorrento, e nemmeno si torna, per questo oceano mare: si va, direzione Nuova York, incontro al destino e alla promessa, chissà quanto ben riposta, di un futuro migliore. È il sentimental-avventuroso Napoli New York, scritto e diretto da Gabriele Salvatores a partire dal soggetto firmato da Federico Fellini e Tullio Pinelli.

Sicché l’immediato Dopoguerra a Napoli, tra macerie e miserie, e l’epopea ordinaria di due orfanelli, Celestina (Dea Lanzaro) e Carmine (Antonio Guerra), lasciati a sé stessi: s’imbarcheranno clandestinamente su un piroscafo per la Grande Mela, via Ellis Island, dove faranno la conoscenza, e forse la mutua salvezza, del commissario di bordo Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino). L’obiettivo è trovare la sorella di Celestina, Agnese (Anna Lucia Pierro), ma la realtà americana, alla voce razzismo, non sarà tenera: Napoli New York è davvero sola andata?

Salvatores firma il suo film più riuscito degli ultimi vent’anni, da Io non ho paura (2003), e perfino il più coraggioso se non screanzato: nell’alveo del genere family, si predilige la relazione di coppia all’avere o diventare figli; nella temperie attuale, si parla di quando gli emigrati erano gli italiani.

A rendere l’effetto “d’epoca” concorrono pregevolmente la fotografia, luci di Diego Indraccolo, e effetti visivi, Victor Perez, a veicolare la favola di formazione, con beneficio di commozione, gli attori, dall’irresistibile paesana Lanzaro all’assertivo e financo dickensiano Guerra, e il primus inter pares Favino. Nel cast, tutti bravi, Omar Benson Miller, Anna Ammirati e Antonio Catania, Picchio – come è soprannominato Pierfrancesco – prosegue la sua sperimentazione linguistica, e vieppiù la autodeterminazione (inter)nazionale, dando a Garofalo non il cinematografico siciliano degli italians visti e uditi dagli americani, ma una calata idiosincratica ed esaustiva dell’emigrato nostrano. Più importante, mettendosi al “paterno” servizio degli orfanelli si ritaglia un ruolo compreso, maturo ed empatico, cercando non solo il primo ma il piano d’ascolto.

Napoli New York, dunque, conferma che un cinema medio in Italia è possibile, onorevolmente e addirittura pregevolmente, e che se tra l’autore e il pubblico c’è sempre di mezzo il mare, stavolta è navigabile e, perfino, potabile.