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Massimiliano Gallo e Vanessa Scalera in Napoli milionaria! (foto di Sabrina Cirillo)
Quando Napoli milionaria! (l’esclamativo è decisivo) va in scena per la prima volta, il 15 aprile 1945 al San Carlo di Napoli, la “nuttata” non è ancora passata. Per Eduardo De Filippo è un momento cruciale: la commedia, scritta in poche settimane, è la prima delle cantate dei giorni dispari, cioè la raccolta dedicata agli aspetti negativi della vita. È ancora presto per distinguere i sommersi dai salvati e la città devastata dalla guerra, piena di soldati e borsisti, non sa ancora che di lì a poco sarebbe stata ancora più ferita dal sacco edilizio del sindaco-comandante Achille Lauro. Nel 1950, lo stesso Eduardo porta la commedia sul grande schermo: rifiuta il teatro in scatola e fa respirare la storia con scenografie curate e fughe marittime, si fa militante in senso popolare perché nel guardare al passato recente denuncia le storture della nascente democrazia. Un adattamento molto interessante, che rende quel film più originale della pur mitica versione televisiva del 1962 (dove c’è una maestosa Regina Bianchi) e di quella didascalica con Massimo Ranieri nel 2011.
Tutto ciò per dire che questa nuova trasposizione firmata dal ronconiano Filippo Gili e da Massimo Gaudioso (uno dei più importanti sceneggiatori italiani) per la regia di Luca Miniero ha il vantaggio di lavorare in una terra quasi vergine: il moloch eduardiano è talmente imponente da non poter essere un paragone ma una stella polare. A differenza di altre opere del maestro, Napoli milionaria! è meno fissata nell’immaginario di Natale in casa Cupiello (vedasi le polemiche dei puristi pigri per la suggestiva versione di Edoardo De Angelis) o Filumena Marturano (via Matrimonio all’italiana, per esempio).
E proprio l’adattamento di quest’ultima commedia, andata in onda l’anno scorso per la regia di Francesco Amato, ha “legittimato” i protagonisti Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo come corpi ideali di questo nuovo corso eduardiano. La loro è una coppia clamorosa, non solo per la chimica palpabile ma proprio per la presenza autorevole, il carisma imprevedibile, la capacità di trasmettere il dolore con un’occhiata.
La trama è nota: nella Napoli del 1942, Amalia è costretta a entrare nella borsa nera, per sfamare la famiglia e rispondere all’inerzia del marito Gennaro. Deportato dai tedeschi, Gennaro viene dato per disperso e Amalia, nella città liberata, fa affari con il losco Settebellizze, pur sperando nel suo ritorno. E quando si ripresenta a casa, l’uomo trova una famiglia travolta dagli eventi, con la figlia più piccola in fin di vita.
È vero, se la regia di Miniero sa infondere fluidità muovendosi con abilità nella struttura originale a tre atti, l’adattamento di Gili e Gaudioso si prende qualche libertà, dalla bambina malata che nella commedia resta fuori scena perché è un’allegoria sociale e qui invece è parte attiva (ma anche nel film by Eduardo c’è: d’altronde il teatro non è il cinema) a una “sottovalutazione” del rapporto chiave vittima-carnefice tra Amalia e il ragioniere Spasiano che si ribalta dopo l’ascesa economica della donna. Giova ricordare che tradurre è sempre tradire, perché il modo migliore per restare fedeli a un testo e salvarne lo spirito è evitare la tentazione di farne un calco.
E l’operazione, prodotta da Picomedia con Rai, sa posizionare il classico nella contemporaneità, congiungendo tradizione (la ricostruzione del basso è mirabile perché preserva un vago coefficiente antinaturalista) e modernità (la regia di Miniero è sinuosa e sintonizzata sul presente, perfino i droni sono usati con misura), conservando il suono delle voci di dentro (il napoletano) e recuperando le facce del tempo perduto (Nunzia Schiano, Vincenzo Nemolato, Marcello Romolo, Carolina Rapillo, Michele Venitucci). Scalera può far tutto, Gallo è una garanzia, Pino Daniele nel finale un colpo al cuore.