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Harry Styles e Emma Corrin in My Policeman. Photo: Parisa Taghizadeh © Amazon Content Services Llc
Non è un paese per omosessuali, la Gran Bretagna degli anni Cinquanta, dove non è legale amarsi tra persone dello stesso sesso. Se scoperti, si finisce in galera: Alan Turing, il padre dell'informatica, si suicidò in seguito alle terapie di conversione impostegli dalla legge. Senza questa informazione non si capisce il contesto in cui si muove My Policeman, adattamento del romanzo di Bethan Roberts, un mélo che intreccia una relazione proibita, un matrimonio reticente e un’amicizia tradita.
Asse del triangolo scaleno è proprio il poliziotto, Tom, e la sua prima apparizione, mentre cammina su una spiaggia assolata, è emblematica: è divorato dallo sguardo di Marion, innamorata a prima vista di quel ragazzo, ma è anche oggetto del desiderio del regista, il teatrante Michele Grandage. Un concetto sottolineato anche quando entra in scena il terzo incomodo, Patrick, un curatore di museo talmente abbagliato dalla bellezza di Tom da volerlo eternare in un quadro. Galeotto.
Mettiamoci pure quel possessivo che nel titolo definisce esplicitamente l’ossessione amorosa e capiamo bene quanto My Policeman viva del corpo, dell’immagine, del carisma, del divismo di Tom, cioè la star Harry Styles. Se Emma Corrin (Marion) e David Dawson (Patrick) non fanno che confermare il loro talento, Styles coglie l’occasione per posizionarsi in un territorio meno mainstream di Eternals e Don’t Worry Darling e proporsi come icona di un cinema romantico, malinconico, d’autore.
In realtà, più che un prodotto d’autore (formato Prime Video), My Policeman è quintessenzialmente espressione della medietà britannica per lessico, colori, mezzi toni. Si nota soprattutto nella parte ambientata negli anni Novanta, quando i tre sono ritratti ormai sessantenni, quando Marion decide di ospitare in casa Patrick, ormai malato terminale, scatenando la contrarietà di Tom: è un peccato che lo sguardo del regista non sappia incidere nelle pieghe del melodramma, nel cavalcare il peso del rimorso, nel valorizzare il silenzio di Rupert Everett (Patrick âge), nonostante un finale di buon impatto emotivo.
È discreto, My Policeman, è piaciuto al pubblico del Toronto Film Festival, è aiutato da una ricostruzione attendibile e dalla voce di Ella Fitzgerald che canta Bewitched, Bothered and Bewildered, ma è timido e gli manca qualcosa per rimanere incastonato nella memoria come vorrebbe. Forse la ricerca formale, il sentirsi incastrati, la nostalgia come inquietudine della poetica di James Ivory. O forse l’audacia perturbante di Victim, che nel 1961 fu il primo film a nominare la parola omosessualità e ci sembra ancora infinitamente più contemporaneo.
Alla fine My Policeman è come la cartolina di Venezia che Tom invia a Marion: la condivisione di un segreto che passa per l’accettazione di una reticenza, una mancata confessione tramite un’immagine oleografica, l’idillio proprio che nasconde il dolore altrui. Finezze estemporanee.