I ruggenti Anni Sessanta vivono ancora, sul grande schermo e nei cuori dei suoi protagonisti. La rivoluzione culturale di My Generation parte dagli occhi di un Michael Caine commosso, nostalgico, che abbraccia la sua gioventù perduta per condividere il furore di quel decennio. La società classista ed elitaria ha dovuto, suo malgrado, accettare il grido di ribellione di tutti coloro che volevano rompere ogni canone, andare oltre le barriere, per sentirsi finalmente liberi. Tornare a respirare dopo decenni di clausura.
Caine ricorda Londra, i suoi colori e le avventure di un passato che ha cambiato il mondo. A otto anni voleva recitare, ma le luci della ribalta erano lontane dalla mente. Il suo vero nome era Maurice Joseph Miklewhite Jr. Troppo lungo, impronunciabile. Fu Humphrey Bogart a ispirarlo. Un giorno vide la locandina de L’ammutinamento del Caine che svettava su Leicester Square, e non ci pensò due volte ad aggiungere un Caine dopo il Michael. Era il 1954, e in poco più di due lustri si sarebbe scatenato il finimondo.
My Generation è un documentario dinamico, travolgente: ottantacinque minuti di psichedelia e fermenti. Si divide in tre atti, che descrivono la voglia di esplodere, le prime vittorie e il cambio di percezione di un’Inghilterra che vuole rovesciare ogni certezza. Non è vero che i figli degli operai non possono studiare. Le ragazze possono avere i capelli corti e i maschi delle fluenti chiome. Le gonne si accorciano, l’amore fisico vince sulla repressione e la musica sconvolge le vecchie generazioni.