Dal 2021, la Bielorussia del putiniano Lukashenko esorta i migranti provenienti da Africa e Siria a giungere nel suo paese, addirittura con visti e voli pagati, per poi espellerli verso i confini dei paesi dell’Unione Europea, tra cui la Polonia guidata (almeno fino alle ultime elezioni, vinte dalla coalizione europeista) dall’atlantista PiS.

Da quel momento, il confine tra Polonia e Bielorussia è teatro di una crisi umanitaria e politica: Lukashenko ha creato una nuova rotta migratoria con l’obiettivo di muovere un’azione di rappresaglia nei confronti dell’Europa, in seguito alle sanzioni comminategli dopo le ennesime irregolarità registrate alle consultazioni elettorali; il governo polacco, fortemente xenofobo, respinge i migranti per motivi di propaganda, obbligando i migranti nelle condizioni più avverse (anzitutto ambientali: pochi resistono al rigido inverno), e, nel 2022, ha costruito il muro più costoso d'Europa, impedendo che volontari, organizzazioni umanitarie, giornalisti e persino europarlamentari possano avvicinarsi in questa zona rossa.

Va da sé che non arrivano molte notizie da quel fronte ed è commovente che a squarciare il velo sia proprio il cinema: pensiamo all’ultimo, grande film di Agnieszka Holland, Green Border, girato sostanzialmente nella clandestinità e accolto in Polonia in un clima a dir poco ostile. Se la navigata regista di Varsavia ha scelto il racconto di finzione per smuovere le coscienze, l’esordiente Kasia Smutniak vira invece verso il documentario, mettendosi sia davanti che dietro la macchina da presa per testimoniare e denunciare.

Mur
Mur

Mur

Mur (presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo la première al Toronto Film Festival) nasce da una contraddizione: perché, all’indomani dell’aggressione russa all’Ucraina, quella Polonia che sta impedendo l’ingresso dei migranti si prodiga con tempestività e generosità per dare asilo ai rifugiati? A partire da questa ipocrisia e per capire cosa sta accadendo davvero, Smutniak si mette in viaggio verso la sua terra natia, con l’obiettivo di restituire la cronaca tramite ciò che è precluso al nostro sguardo: le immagini. E lo fa dando voce al dissenso, il suo e quello degli attivisti locali che l’aiutano, forse a volte troppo ansiosa di offrire un commento, una lettura, un’interpretazione che sono già presenti nella crudezza espressiva delle riprese da guerriglia.

Mur non è solo reportage ma anche diario, perché nel “ritorno a casa” Smutniak coglie l’occasione per fare i conti col passato, trovando nella casa dei nonni a Łódź lo spazio dove incrociare il ricordo personale e la memoria collettiva, poiché di fronte all’appartamento c’è un altro muro: quello del cimitero ebraico del ghetto di Litzmannstadt. C’è qualche fragilità nel calibrare i tempi e nel dosare la presenza dell’autrice, con alcuni momenti che sembrano più adatti a una timeline social e finiscono per essere poco organici con l’operazione generale. Ma c’è anche molta passione, civile e non, in questa opera prima politica e intima dove il documentario triangola con il passo del thriller e l’avventura in un posto ostile.